L’amore vince. Da buon italiano, cerco anch’io di convincermi che questa è la formula magica per risolvere tutti i problemi del nostro paese. Ma ho dei limiti precisi, e faccio ancora fatica. Per di più, invece che amore, intanto provo un po’ di invidia. Riprovevole sentimento, soprattutto se indirizzato a dei colleghi: Antonio Ingroia e Armando Spataro. Alimentato mio malgrado da alcuni interrogativi surreali che mi ronzano in testa.
Perché questi due (magistrati onesti, capaci e coraggiosi) sono stati attaccati – con vigore senza precedenti – e io no? Se loro sono nel mirino perché fanno il proprio dovere, e lo fanno bene, vuol dire che io – se mi lasciano in pace – il mio dovere non lo so fare? Per loro una gragnuola di spietati rimproveri al Csm, in Parlamento, nei salotti televisivi più celebrati e per me invece niente?
Immodestamente, pensavo di aver dimostrato (come tanti altri, tra i quali appunto Ingroia e Spataro) di non essere un tipo “scaltro”, cioè pronto a riconoscere in teoria la pericolosità della mafia e del malaffare nelle sue varie connessioni con pezzi del potere politico ed economico, ma pronto altresì – nella prassi quotidiana – a trascurare tali connessioni. E i vari Vespa, Sgarbi, Liguori e Iannuzzi ecc. ne hanno talora tratto conseguenze per me piuttosto spiacevoli. Ma ora l’essere… ignorato mi fa venire qualche dubbio. In che cosa avrò sbagliato? Mi rivolgo a tutti coloro che volessero riprendere gli “argomenti” del consigliere del Csm avv. Anedda o del parlamentare onorevole Cicchitto: non dimenticatemi! Non fatemi questo torto! Ne va della mia autostima!
In realtà, il vulnus recato (attraverso gli attacchi a Spataro e Ingroia) a tutta la giurisdizione, di spazio all’ironia ne lascia davvero poco. Conviene ricordare ancora una volta una verità di base: il sistema giudiziario spesso non funziona o funziona male; eppure anche quel poco dà talora fastidio. E l’obiettivo di chi attacca la giurisdizione è avere meno, non più giustizia. Di qui la pretesa che la giurisdizione faccia un “passo indietro” e che i magistrati neppure partecipino al dibattito politico-culturale sui problemi della giustizia (guai infatti a ricordare che un sistema intriso di corruzione o di rapporti con la mafia è l’emblema del prevalere dell’interesse privato sul pubblico). Di qui anche gli attacchi portati a chi si ostina a interpretare il proprio ruolo di magistrato rifiutando vecchi e nuovi machiavellismi, preferendo – al conformismo e al quieto vivere – l’impegno rigoroso. Attacchi che – per certi profili, pur in presenza di una situazione radicalmente diversa – fanno tornare alla mente il pensiero di uno dei nostri “maggiori”, Piero Calamandrei, e la storia di Aurelio Sansoni. Un magistrato che “qualcuno, nei primi tempi del fascismo chiamava anche il ‘pretore rosso’: e non era in realtà né rosso né bigio: era soltanto una coscienza tranquillamente fiera, non disposta a rinnegare la volontà degli squadristi che invadevano le aule. Era semplicemente un giudice giusto: e per questo lo chiamavano ‘rosso’ (perché sempre, tra le tante sofferenze che attendono il giudice giusto, vi è quella di sentirsi accusare, quando non è disposto a servire una fazione, di essere al servizio della fazione contraria)”.
In realtà, il vulnus recato (attraverso gli attacchi a Spataro e Ingroia) a tutta la giurisdizione, di spazio all’ironia ne lascia davvero poco. Conviene ricordare ancora una volta una verità di base: il sistema giudiziario spesso non funziona o funziona male; eppure anche quel poco dà talora fastidio. E l’obiettivo di chi attacca la giurisdizione è avere meno, non più giustizia. Di qui la pretesa che la giurisdizione faccia un “passo indietro” e che i magistrati neppure partecipino al dibattito politico-culturale sui problemi della giustizia (guai infatti a ricordare che un sistema intriso di corruzione o di rapporti con la mafia è l’emblema del prevalere dell’interesse privato sul pubblico). Di qui anche gli attacchi portati a chi si ostina a interpretare il proprio ruolo di magistrato rifiutando vecchi e nuovi machiavellismi, preferendo – al conformismo e al quieto vivere – l’impegno rigoroso. Attacchi che – per certi profili, pur in presenza di una situazione radicalmente diversa – fanno tornare alla mente il pensiero di uno dei nostri “maggiori”, Piero Calamandrei, e la storia di Aurelio Sansoni. Un magistrato che “qualcuno, nei primi tempi del fascismo chiamava anche il ‘pretore rosso’: e non era in realtà né rosso né bigio: era soltanto una coscienza tranquillamente fiera, non disposta a rinnegare la volontà degli squadristi che invadevano le aule. Era semplicemente un giudice giusto: e per questo lo chiamavano ‘rosso’ (perché sempre, tra le tante sofferenze che attendono il giudice giusto, vi è quella di sentirsi accusare, quando non è disposto a servire una fazione, di essere al servizio della fazione contraria)”.
Vi sono state, dunque, situazioni storiche in cui, per poter ricercare e affermare la verità con onestà intellettuale, non bastavano preparazione professionale e correttezza. Bisognava anche esser combattivi e coraggiosi. Ma se questo accade pure in democrazia, in una situazione storica tutt’affatto diversa rispetto a quella cui si riferiva Calamandrei, ecco che le vicende di Spataro e Ingroia – più che invidia – suscitano preoccupazione.
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