Pochi giorni fa Berlusconi ha evocato la guerra civile. Questa nei classici significa confusione, crudeltà e inversione di valori. Da tempo assistiamo a caotici contrasti che oppongono governo a magistratura, gestori o attori del potere a personaggi rivali dentro lo stesso governo, e deputati dell’opposizione ad altri onorevoli della medesima parte. C’è perfino chi contrasta se stesso, smentendo oggi quello che ha detto ieri. Nel frattempo guardie pagate per custodire, e addirittura medici il cui compito è quello di curare, contribuiscono a rovinare giovani vite in difficoltà. Né mancano maestre sadiche che invece di allevare i bambini educandoli, li straziano terrorizzandoli. Tutto va alla rovescia e il caos ci divora. La confusione generale per molti è una scappatoia dal rendimento di conti. Nelle Anime morte di Gogol un farabutto suggerisce di confondere le idee per rendere impossibile il compito di fare giustizia: “Confondere, confondere e nient’altro: introdurre nel caso nuovi elementi estranei, complicare. E che ci si raccapezzi pure il funzionario pietroburghese incaricato … l’importante è trovare delle circostanze capaci di gettar fumo negli occhi”.
È il metodo per ingannare che già Aristofane nei Cavalieri attribuiva al mestafango Cleone, del resto beniamino del popolo quando, nel 424 a. C., venne rappresentata la commedia. Secondo l’autore, egli si comportava come i pescatori di anguille i quali nell’acqua pulita non prendono nulla, ma, se smuovono il fondo limaccioso del pantano, fanno buona pesca. Così il demagogo sconvolgeva la città. Tucidide scrive due capitoli cruciali (III, 82-83) sulla guerra civile di Corcira durante la quale (427-425 a. C.) capitarono molte gravi sciagure che avverranno sempre “finché la natura umana rimarrà la stessa”. Il succo delle riflessioni è che la guerra è “maestra di violenza” e adegua alle circostanze i caratteri dei più. In quella situazione gli uomini “cambiarono arbitrariamente l'usuale valore delle parole in rapporto ai fatti”. Alcuni esempi di questo slittamento linguistico: “L'audacia sconsiderata fu ritenuta coraggio leale al partito, l’indugio prudente invece, viltà speciosa, la moderazione poi, schermo della viltà”.
Ecco dunque che, attraverso un ribaltamento delle parole, avviene un capovolgimento dei valori, una de-moralizzazione generale, e così, durante l’imperversare della violenza e della demagogia, diventa un disvalore quel senso della misura, che caratterizza l’uomo greco beneducato. L’elenco della degenerazione semantica e morale continua: “l’intelligenza divenne infingardaggine, chi si adirava era considerato affidabile, chi gli si opponeva, sospetto. Il successo giustificava le insidie, chi le tendeva, se gli riuscivano, era intelligente. Chi induceva a fare il male era lodato”. Sallustio riprende alcune di queste espressioni nel Bellum Catilinae a proposito della lotta tra fazioni seguita al consolato di Pompeo e Crasso del 70 a. C.: “Mentre simulavano il bene pubblico, ciascuno lottava per la propria potenza” (38),.
La storiografia di Sallustio tende a spiegare i fatti della storia attraverso i vizi e le virtù umane: per questo può esserle avvicinato il libro di Claudio Pavone Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza. L’autore indaga su passioni, sentimenti, motivazioni culturali degli uomini. La guerra civile è il più crudele e il più politico dei conflitti: negli anni 1943-1945 conteneva elementi di guerra di classe e di guerra patriottica, tesa alla “riconquista dell’identità nazionale” e di liberazione del territorio dallo straniero. Questa guerra civile fu dunque una guerra totale che impose la propria forma alle altre due e decise chi doveva essere considerato civis. In essa, come nelle lotte intestine tra Ateniesi di cui parla Solone, era necessario schierarsi. La “scelta fondante”, nello sfascio o nel vuoto delle istituzioni dopo l’8 settembre, fu una necessità dettata in primo luogo dalla coscienza: una “responsabilità totale nella solitudine totale”, soprattutto per i partigiani. Scegliere di opporsi ai nazifascisti fu: “Una riaffermazione dell’antico principio che il potere non deve averla vinta sulla virtù”. La scelta dei fascisti per la Repubblica sociale invece non ebbe questo carattere di disobbedienza. Violenza ci fu da entrambe le parti ma nei repubblichini era insita la cultura e l’estetica della morte: il loro simbolo era il fascio littorio “che aveva come elemento costitutivo la scure delle esecuzioni capitali”. I resistenti guardavano al futuro e vedevano la morte come l’extrema ratio di una guerra terribile, mentre i fascisti erano legati cupamente al passato. “Abbiamo troppo futuro davanti a noi per sporcarci le mani” dice una partigiana nell’opporsi a una fucilazione.
g.ghiselli@tin.it
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