Intervista a Dalia Gaberscik, figlia del grande artista milanese scomparso all’inizio di gennaio del 2003.
Vizi, passioni e sogni di un irregolare
di Guido Biondi
di Guido Biondi
Se esiste una persona in grado di raccontare “da vicino” Giorgio Gaber quella è sua figlia, Dalia Gaberscik. Da diverso tempo si occupa di una grande società di comunicazione nel mondo dello spettacolo; a 43 anni è diventata leader, come ufficio stampa, di gran parte dei programmi televisivi italiani e di diversi artisti. Ma la sua attività più cara, senza dubbio, è portare avanti la Fondazione Gaber il cui compito principale è divulgare, attraverso dvd e spettacoli itineranti, le opere più significative realizzate da suo padre. Non ama particolarmente i riflettori, concede pochissime interviste e ama stare “dietro le quinte”. Ha ereditato senza dubbio una grande lucidità; una persona serena, umile e simpatica dotata di un’ironia disarmante. E svela al Fatto quotidiano che, in fondo, avrebbe preferito due genitori più “invisibili”.
Si è appena conclusa la terza edizione di “Milano per Giorgio Gaber”. Come avete selezionato gli artisti per rappresentare le opere di suo padre?
L’occasione per incontrarci è stato il “Festival Gaber” che presentiamo ogni anno a Viareggio: lì inizia l’approfondimento e il divertimento a confrontarsi con alcune delle cose fatte da mio padre. È stato così per Bisio, Marcorè, Casale, Maddalena Crippa. Mio papà si sentiva sempre un po’ in debito col suo lavoro: credeva di avergli dato poca opportunità di essere conosciuto; anche nelle registrazioni dei dvd è sempre stato molto parsimonioso. Negli anni Settanta aveva scelto il teatro - quello che considerava l’unico possibile “mezzo” per esprimere il suo pensiero - come palcoscenico ideale; era sempre stracolmo. Oltre 200mila persone in un anno: numeri che oggi, se si pensa alla platea televisiva, sono irrilevanti. Noi cerchiamo con molta umiltà di divulgare il suo lavoro, ad esempio con il nuovo dvd.
È appena uscito il dvd “Gli anni Novanta”, ultimo tassello della cronologia delle opere di Gaber; ci sono molti inediti, ce ne parla?
Il dibattito all’interno della Fondazione è stato molto acceso perché ci sono parecchie immagini amatoriali o, magari, in cui papà non è nella massima forma. Si tratta di riprese “rubate” alla tv svizzera o alla Rai; anche di immagini casalinghe, come nel caso di “Io se fossi Dio”.
Colpisce la versione di questo brano nel nuovo dvd: il testo parla di intrecci tra politica e mafia. Sembra quasi una profezia di Gaber…
Senza dubbio. Io credo che tutto continui a restare molto attuale; è sorprendente che, a sette anni di distanza dal giorno della sua scomparsa - il primo gennaio 2003 - siamo praticamente allo stesso punto nella politica. Nessuno la voleva pubblicare, durava oltre sedici minuti: uscì per un’etichetta di discomusic!
Quali sono le persone coinvolte attivamente al progetto Fondazione Gaber?
A tempo pieno lavorano un presidente, Paolo Dal Bon, una segretaria, una persona che si occupa di digitalizzazione e alcuni volontari. Nel consiglio d’amministrazione ci sono alcuni tra i più stretti collaboratori che mio padre ha avuto oltre a me e Sandro Luporini.
Come preparava la sua stagione teatrale, come si documentava sui testi che avrebbe presentato al suo pubblico?
Aveva un modo abbastanza abitudinario, ripetitivo. Una volta che terminava lo spettacolo a maggio, lui e Luporini si dedicavano, per due-tre mesi a parlare per individuare i temi che avevano voglia di affrontare. Era l’incontro-scontro tra due grandi cervelli sui temi d’attualità. La loro modalità di lavoro, anche nella scrittura, era sempre destinata a convergere; non c’era mai il desiderio di prevaricare. L’obiettivo comune era trovare il punto d’incontro tra due visioni contrapposte. Lo scopo era quello di creare quel “dubbio gaberiano” che ti lasciava a fine spettacolo con un punto interrogativo anziché con una certezza assoluta. Tra luglio e agosto iniziava la scrittura a quattro mani, spesso lavorando anche di notte. A settembre c’era il periodo della memorizzazione dei testi e delle prove dello spettacolo.
Quali sono gli artisti, secondo lei, che hanno più affinità con suo padre e, in generale, con la “coppia che convergeva” Gaber-Luporini: più simile a Battiato-Sgalambro che a Mogol-Battisti se vogliamo ironizzare…
Forse più Battiato-Sgalambro… Per quanto riguarda le affinità è difficile immaginare qualcuno che abbia l’onestà e il rigore del suo percorso. I suoi testi sono talmente personali che per rappresentarli nuovamente bisogna condividerli. Ti posso citare le persone che lui sentiva vicino. Con Battiato ha fatto “Polli d’allevamento”; mio padre lo stimava moltissimo. Jannacci rappresentava un’amicizia nata in tenera età. E poi Celentano, Mariangela Melato, Beppe Grillo…
C’è una bellissima fotografia che ritrae Gaber e sua figlia nella stessa posizione; sicuramente avere un papà artista per una bambina piccola implicava una vita non ordinaria: come lo vedevano i suoi occhi?
Ricordo che in quella foto mi accompagnavano a scuola mio padre e mia madre; lui era famosissimo, più di quanto possa esserlo Fiorello oggi. Lei era di una bellezza sconvolgente, aveva questi capelli in stile “leone della savana”!
Si sentiva come un elefante in un negozio di cristalli?
Avrei preferito avere due persone ordinarie come genitori e magari un cognome meno strano di Gaberscik! Io volevo essere una Maria Rossi! (ride, n.d.r.). Più avanti ero portata a giudicare severamente tutte le cose che creavano problemi col pubblico. Nel 1978, quando avevo 12 anni, durante “Polli d’allevamento” ci sono state delle contestazioni molto pesanti: il dibattito e le idee avevano ancora un valore.
A quali delle opere di suo padre si sente più legata?
Cose più nascoste: “L’impotenza” oppure “L’attesa”. Poi direi “Qualcuno era comunista”, forse una delle migliori sintesi di quello che è stato il suo lavoro.
Molte persone a teatro piangevano ascoltandola…
È un’invettiva appassionata che per molti è stata veramente molto emozionante. Credo che, artisticamente parlando, sia stata l’apice del “Teatro canzone”.
C’è un bellissimo libro “Gaber Giorgio, il Signor G”: un compendio di artisti, scrittori, giornalisti che raccontano suo papà. Ce ne sono alcuni che l’hanno colpita in modo particolare?
Ovviamente mi hanno sorpreso i commenti appassionati di coloro che non sapevo essere suoi ammiratori. Ad esempio gli Articolo 31 oppure Laura Pausini che può sembrare distante centinaia di chilometri ed invece ha partecipato al festival con una grande umiltà. Poi Luca & Paolo, la Nannini…
Nel libro Feltri scrive: “Quando ascolto Gaber non me ne frega più niente di Fassino e Berlusconi, di destra e sinistra”. Suo padre su queste ultime due parole ci scrisse anche una canzone. E in casa come si viveva la politica?
Con grande distacco e con grande ironia. Non ho mai visto dibattiti accesi tra i miei genitori: non hanno mai considerato la politica un fatto di schieramento ma di persone. Mio padre ha accettato con molta tranquillità la decisione di mia mamma di entrare in politica poiché la stimava come persona. La prendeva in giro perché aveva deciso di essere organica alla politica.
Lei si occupa di comunicazione e spettacolo anche se “dietro le quinte”. Crede che suo padre approverebbe la sua scelta?
No. Credo che lui avrebbe orrore del lavoro che faccio. Spero di aver proseguito nel modo in cui lo faceva lui: mettendo la coscienza su qualunque tipo di bilancia; è quello che vorrei tramandare ai miei figli. In questo momento può sembrare banale parlare di onestà. Eppure sono convinta, come lo era lui, che è l’unico modo di fare le cose, anche a costo di essere meno ricchi, meno famosi. Oggi deve essere più bravo chi è il più ricco? Mica detto!
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