Il braccio di ferro si scioglie a sera. Grazie alla mediazione di Fini e alla pazienza di Letta che, per una giornata, sale e scende le scale del Quirinale. Alla fine è decreto che, seppure per soli 45 giorni e non per i tre mesi che pretendeva Berlusconi, fermerà comunque i suoi dibattimenti.
Il Cavaliere ha vinto a metà, e ora resiste a chi lo pressa per fargli abbandonare subito, addirittura già oggi, il processo breve. Ma lui vuole tirare diritto ed è pronto alla sfida, convinto com'è che tre leggi ad personam, tutte nello stesso momento, tra Senato e Camera, non sono troppe per mettere a tacere i suoi incubi giudiziari. Processo breve, legittimo impedimento, adesso il decreto che congela i processi per un mese e mezzo. Avanti, anche a costo di vivere un'altra giornata di fuochi d'artificio tra palazzo Chigi e Quirinale come il 12 gennaio 2010 che passerà alla storia dei tormentati rapporti tra gli inquilini dei due palazzi come quello in cui, per l'ennesima volta, Napolitano ha posto un freno a un premier che vuole usare la legislazione a suo uso e consumo.
È mattina presto quando i giornali consegnano al presidente della Repubblica la notizia che Berlusconi vuole trasformare in un decreto legge una sentenza della Consulta fresca del 14 dicembre 2009, scritta da Giuseppe Frigo, sponsorizzato per l'incarico di alto giudice appena pochi mesi fa dall'avvocato del premier Niccolò Ghedini. L'ha annunciato lo stesso Cavaliere nel vertice sulla giustizia. L'ha presentato a tutti i venti presenti come lo strumento per consentirgli di bloccare i casi Mills e Mediaset per tre mesi, giusto fino alle elezioni. Passaggio semplice: la Corte dice che se il pm ha contestato all'imputato una nuova accusa durante il dibattimento costui ha il diritto di chiedere il rito abbreviato e di farlo godendo di una sospensione congrua per pensarci bene. Legge retroattiva, naturalmente, senno non servirebbe a capo del governo, ma neppure ai tanti che magari si trovano nelle sue stesse condizioni. Legge che riguarda appieno le inchieste milanesi in cui, sia per Mills che per Mediaset, c'è stata una nuova accusa mossa dalla procura.
Ma lo stesso Berlusconi, che pure ha incontrato Napolitano lunedì sera, non gli ha detto nulla, probabilmente per non rovinare subito il clima del primo incontro dopo l'aggressione di Milano. Il presidente non gli ha chiesto nulla sulla giustizia, lui ha taciuto. Ma adesso il telefono di Letta squilla di buon ora. Lo staff del presidente, a suo nome, chiede chiarimenti. E il sottosegretario alla presidenza, l'uomo delegato ai rapporti con il Colle, capisce che la cosa migliore è salire subito da Napolitano con in mano il testo del decreto.
Il faccia a faccia è franco, nello stile asciutto che contraddistingue i rapporti tra i due. Il presidente chiede spiegazioni innanzitutto per l'inspiegabile silenzio del premier su una notizia, di assoluto rilievo, che poi è comparsa sui giornali. E poi sul contenuto. Sul quale pone dei paletti preventivi, visto che tocca proprio a lui, al capo dello Stato, firmare i decreti. Letta dettaglia il testo e poi lo lascia al Quirinale. Napolitano con lui è esplicito: solo dopo un'attenta lettura e solo dopo un riscontro meticoloso e puntuale sull'effettiva corrispondenza tra il decreto e la sentenza della Consulta, sulla congruità tra atto governativo e massima della Corte, farà conoscere la sua posizione e le sue osservazioni.
Letta torna a palazzo Chigi. Dove, quando è fine mattinata, giunge un alto là. Il testo così com'è non va bene. Va modificato. Il presidente lo firma solo se le sue correzioni saranno accolte. Innanzitutto quella sulla durata della sospensione, da tre mesi a 45 giorni. Berlusconi si ferma. Il decreto, che fino a quel momento veniva dato per certo per il Consiglio dei ministri di oggi, viene frenato. Si studiano soluzioni alternative, come inserire la norma in uno dei decreti in scadenza, il milleproroghe o quello sulle procure disagiate, ma balza subito all'occhio che la materia è disomogenea. Poi si scandaglia la via di infilarlo come emendamento al processo breve o al legittimo impedimento. Ma i tempi sarebbero troppo lunghi e la norma stessa inutile per gli scopi di un Berlusconi che vuole gestirsi in tutta tranquillità, con i dibattimenti congelati, la sua campagna elettorale.
E qui interviene il presidente della Camera che media tra le richieste del Colle e le pretese del premier. Gianfranco Fini s'incontra con Giulia Bongiorno, alle prese nella commissione Giustizia, che presiede, col legittimo impedimento. I due esaminano il testo che, nel frattempo, Ghedini si è precipitato a sottoporle. Decidono che, riveduto e corretto, alla fin fine attua una sentenza della Consulta. Tra le norme ad personam non può ottenere la palma di quella peggiore, anche se è stata prodotta solo perché c'è di mezzo Berlusconi, il quale d'improvviso riscopre l'importanza della Consulta, che pure ha accusato di essere un'emissaria dei comunisti per la bocciatura del lodo Alfano. Il testo ritorna al Quirinale dove Napolitano decide di dare un segnale di pacificazione. E dà il via libera. Ora resta da scrivere la storia prossima ventura del processo breve. Che pure i finiani vorrebbero veder fermato, ma a cui il Cavaliere non rinuncia.
(13 gennaio 2010)
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