giovedì 21 gennaio 2010

Fretta, errori e conseguenze: manca una riforma di sistema


Da 6,5 a 10 anni per un processo non sarebbero pochi, a patto di risorse commisurate. Ma senza misure coerenti e complessive sulla giustizia, e fuori da riassetti costituzionali delle immunità, spicca la norma retroattiva che farà evaporare due interi processi del premier in corso.

Mai prima d’ora in Parlamento, con pari evidenza in nessuna delle 7 leggi approvate dal 2001 dalla maggioranze di Silvio Berlusconi e poi applicate ai suoi processi, una norma retroattiva si appresta ad avere l’immediato effetto di far evaporare non due figure di reato, o due prove d’accusa, ma addirittura due interi processi del premier già a metà del loro percorso verso la sentenza di primo grado: quelli nei quali il presidente del Consiglio è imputato di frode fiscale sui diritti tv Mediaset, e di corruzione in atti giudiziari del testimone David Mills. Ascolta, una volta un giudice come me giudicò chi gli aveva dettato la legge: prima cambiarono il giudice, e subito dopo la legge. Risuona De Andrè (1973) nella legge che, approvata ieri dal Senato, paradossalmente Berlusconi fa mostra di non apprezzare perchè «prevede tempi ancora troppo lunghi, sino a 10 anni è eccessivo». Ha proprio ragione. Solo che non è il suo caso. E’ piuttosto il caso delle 465 vittime di altrettanti reati che ogni giorno in Italia restano con un pugno di mosche in mano davanti a imputati graziati dalla prescrizione. E’ il caso delle parti offese dei 12 processi che, ogni 100, «saltano» per un difetto nei 28 milioni di notifiche manuali l’anno che affannano 5mila cancellieri. Ed è il caso dei 30mila italiani che reclamano indennizzi per l’eccessiva durata dei loro processi, già costata allo Stato 118 milioni.

Non è invece il caso di una politica che finge di ascoltare l’Europa quando Strasburgo condanna la lentezza italiana (per la verità raccomandando, invece di rigide gabbie temporali, l’adeguamento di risorse proporzionali al tipo di cause), ma fa orecchie da mercante quando l’Europa condanna l’Italia a risarcire i detenuti in 2,7 metri quadrati a testa. Se almeno accompagnassero una coerente e sistematica riforma della giustizia, le controverse norme sull’estinzione dei processi troverebbero forse maggiore asilo. Anche perché tre anni per arrivare a una sentenza di primo grado, altri due per l’Appello e 18 mesi per la Cassazione non sono pochi, a patto di ben ponderare la congruità, e quindi la sostenibilità, delle attuali dotazioni della Giustizia rispetto alla nuova tempistica con la quale lo Stato vuole garantire ai cittadini, per il futuro, di non far durare tre gradi di giudizio appunto più di 6 anni e mezzo nella maggior parte dei casi (7 anni e mezzo per gli altri, 10 anni per mafia e terrorismo elevabili a 15).

Ma nessuno può ignorare la norma transitoria retroattiva che a gamba tesa cambia, a metà partita, le regole sulla cui base si stanno celebrando i processi in primo grado per reati con pene sotto 10 anni e commessi prima del 2 maggio 2006: appena in vigore, la norma transitoria ne determinerà l’estinzione se sono trascorsi 2 anni non dall’inizio del dibattimento, e neanche dal rinvio a giudizio, ma addirittura dalla richiesta del pm di rinvio a giudizio. Un totale non senso. Che però ne acquista uno solo, se si bada al fatto che il giudizio sui diritti tv Mediaset nasce da una richiesta del 22 aprile 2005, e il processo Mills da una del 10 marzo 2006: entrambi saranno dunque estinti dalla norma transitoria retroattiva. Che, come danni collaterali, falcidierà anche tutti gli altri processi nelle medesime condizioni. Quanti non si sa, ma quali, in alcuni casi, sì: per esempio la scalata Antonveneta, l’aggiotaggio Parmalat contestato ai colossi bancari mondiali, i dossier illegali Telecom e Pirelli, le truffe allo Stato sui rifiuti da parte di Impregilo, le corruzioni Enipower-Enelpower. Peccato che l’altra domanda nel testo di De Andrè, oggi un giudice come me lo chiede al potere, se può giudicare, non riesca a trovare risposta in una equilibrata disciplina costituzionale delle immunità, e in un rinnovato bilanciamento di contrappesi tra politica e magistratura a garanzia dei rispettivi terreni di autonomia: guasti sempre più profondi sarebbero risparmiati all’ordinamento, e acute tensioni smetterebbero di lacerare la società. Invece si stanno tramutando i proclami sulle «immunità» in sotterfugi di «impunità». E si sta scegliendo di mettere la colonna sonora di De Andrè (Tu sei il potere: vuoi essere giudicato? Vuoi essere assolto o condannato?) pure sotto il nuovo «calendario» dei processi.

Luigi Ferrarella
21 gennaio 2010

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