Bettino Craxi? È uno statista. Conti esteri e tangenti sono particolari insignificanti. E allora: che cosa ha fatto lo statista Craxi in materia di politica economica? L’economista Salvatore Bragantini lo ha riassunto in modo sintetico sul Corriere della Sera: “Sotto la guida politica sua – e di De Mita, che oggi non a caso ne canta le gesta – il nostro debito pubblico è volato dal 60 al 120 per cento del Pil; di qui il macigno che tuttora grava sulle spalle del paese e ne frena lo sviluppo”. Per una valutazione della politica economica di Craxi non viziata da pregiudizi, è necessario ricordare innanzitutto che il segretario del Psi va al governo, nel 1983, in un contesto economico generale molto favorevole. Gli anni tra il 1985 e il 1989 possono essere considerati, in rapporto alla crescita economica, i migliori degli ultimi tre decenni di storia italiana. La ricchezza del paese cresce a ritmi che oggi sarebbero da sogno: il Pil ha incrementi annui tra il 2,5 e il 3 per cento e nel 1988 sfiora il 4 per cento. Il quadriennio di Craxi al governo (1983-1987) è dunque benedetto dalla sorte.
Se la congiuntura fortunata non è un merito, Craxi può però rivendicare il successo ottenuto nella politica di rientro dall’inflazione. Era al 15 per cento nel 1983, è sotto il 5 nel 1987, quando Bettino è costretto a lasciare Palazzo Chigi. Il blocco della scala mobile e, più in generale, delle indicizzazioni diffuse, ottiene risultati evidenti. Che non sarebbero però stati così clamorosi senza una fortunata concausa esterna: il crollo del prezzo del petrolio, che da 40 dollari al barile precipita nel biennio 1985-86 sotto i 20 dollari al barile. Dove invece Craxi fallisce pesantemente è nella finanza pubblica. Malgrado le condizioni favorevoli e gli alti tassi di crescita, i suoi governi non si differenziano da quelli della Prima Repubblica che li precedono e li seguono: finanza allegra, spesa senza controllo. Il deficit pubblico raggiunge il suo record storico nel 1985 (12,4 per cento del pil).
Il rapporto tra debito e Pil cresce ogni anni di sei, sette punti. Dal 63,1 di fine 1982 all’89,1 per cento di fine 1987. La reazione – massicce emissioni di titoli di Stato – non fa che peggiorare la situazione, accrescendo la spesa per interessi che diventa enorme e cresce fino al 12,7 per cento del 1993. Nel 1992-93 l’Italia arriva a un passo dal baratro. Mani Pulite ha anche il merito di rendere possibile l’inversione di rotta: il crollo del vecchio sistema dei partiti permette la manovra da brivido di 100 mila miliardi del governo Amato e il risanamento poi continuato dal governo Ciampi. L’economista Tito Boeri fa notare che in quegli anni di debito pubblico neppure si parlava: “L’espressione debito pubblico dal 1984 al 1989, proprio mentre il debito esplodeva, appare nei titoli del Corriere della Sera solo 50 volte. Oggi la si legge quasi tutti i giorni”.
Alla formazione del debito non era estraneo il sistema delle tangenti, che pesava sulle finanze pubbliche. Nel 1992 l’economista Mario Deaglio ipotizza che il sistema Tangentopoli in Italia abbia indotto un giro d’affari attorno ai 10 mila miliardi all’anno, generando un indebitamento pubblico tra i 150 e i 250 mila miliardi di lire, con 15-25 mila miliardi di relativi interessi annui sul debito.
C’è poi un altro fattore negativo nel bilancio Craxi: la gestione delle partecipazioni statali. Le imprese di Stato, già occupate e spremute dalla Dc, vengono assalite dal Psi che cerca di contendere spazi (e soldi) ai democristiani. Nei consigli d’amministrazione, Craxi mette i suoi guastatori: nell’Iri presieduta da Romano Prodi c’è Massimo Pini; nell’Eni arrivano Franco Reviglio e Gabriele Cagliari. Altro che modernizzatore: Craxi perpetua, allarga e approfondisce le satrapie nelle partecipazioni statali, usandole come centri per ottenere potere, clientele, tangenti. Anche in questo Mani Pulite servì a invertire la tendenza: “Senza Mani Pulite”, dirà l’ex presidente della Consob, Guido Rossi, “non ci sarebbe stata la svolta delle privatizzazioni e l’Italia non sarebbe uscita dal suo sistema di capitalismo senza mercato”.
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