martedì 26 gennaio 2010

LA MIA VITA DENTRO


“La mia vita dentro” è diventata un preciso progetto editoriale che era lontanissimo dalle mie intenzioni.
Come afferma Pier Luigi Morini nella sua postfazione “... il tanto temuto direttore invitava la collega Romanini e me nel suo studio e con tutti gli onori di un eccellente ospite, iniziando con il rito del caffè che da buon napoletano era maestro nel preparare, tra una suite di Bach e un aneddoto tratto dalla sua esperienza personale…”, ripetutamente negli ultimi anni della mia attività alla guida di un carcere mi accadeva di raccontare di mie esperienze e più di una persona mi stimolava a scriverne.
Queste sollecitazioni mi facevano sorridere, pensavo “Io non sono uno scrittore, a malapena riesco a dirigere un carcere, figuriamoci” e le liquidavo con una risata, come se mi avessero raccontato una barzelletta, che tra l’altro non mi fanno impazzire.
In previsione della pensione prossima ventura (1.2.2005) pensavo a cosa avrei fatto dopo e mi rispondevo: buone letture, musica, tenermi in contatto col mondo tramite Internet (avevo iniziato ad imparare ad usare un computer in data età). Mi doveva bastare. E mi bastava!
Quale direttore del carcere di Lodi, attività che mi assorbiva per una minima parte dell’orario lavorativo (carcere piccolo, mi assorbiva per si e no tre ore al giorno), avevo stipulato un abbonamento con la Gazzetta Giuridica della Giuffrè editore, che evolse nel 2000 in Diritto & Giustizi@ la cui direzione fu incaricata a Roberto Ormanni, come anche ero abbonato alla banca dati Juris Data sempre della Giuffrè.
Due circostanze furono propizie, una infausta, il suicidio della collega Armida Miserere (che aveva diretto anche il carcere di Lodi in tempi per lei ancora felici), che mi stimolò a scrivere le mie emozioni (la conoscevo personalmente) e il direttore di Diritto & Giustizi@ (al quale fra gli altri avevo inviato ciò che avevo scritto), che, con mia autentica sorpresa, mi rispose personalmente con una mail del 2 maggio 2005 CHE così recitava: “Gentile Ispettore, l'articolo, come prevedevo, è davvero utile e interessante.
Limitatamente a quanto è per noi possibile contribuire, sono felice di pubblicarlo sull'edizione on line di domani e penso di ripubblicarlo anche sull'edizione cartacea settimanale la prossima settimana.
Sono consapevole di quanto siano inascoltate riflessioni che non indulgano alla spettacolarizzazione e all'esasperazione dei toni.
E tuttavia credo che sia nostro dovere essere in pace con i valori etici della società, sebbene mistificati, e provarci.
Così da poter guardare almeno a noi stessi con serenità.
Grazie, davvero.
Roberto Ormanni
”.
Sobbalzai dalla sedia davanti al P.C., rischiando di cadere a terra.
Una simile sensibilità mi era del tutto sconosciuta, se si eccettua il grande Girolamo Minervini, del quale ho scritto.
Puntualmente, la mia lettera Ormanni la pubblicò e ciò diede inizio ad un rapporto professionale, basato sulla sua stima (immeritata) nei miei confronti e la mia ammirazione per un grande giornalista, che pubblicò anche una mia recensione ad un saggio, titolato “La cura dell’Orco” di Pier Luigi Morini.
La inserisco una questa mia nuova presentazione del libro.

“La cura dell’orco
di Pierluigi Morini *
recensione di Luigi Morsello **

La casa circondariale di Lodi, nella realtà delle strutture penitenziarie dislocate sul territorio nazionale, è una piccola realtà che trova ospitalità in un edificio realizzato come carcere nell’anno 1905 e di recente ristrutturato, posto nel centro cittadino.
Le sue ridotte dimensioni, la sua capienza per un numero di posti letto variabile, da 60 ad 80 unità, la relativa tranquillità dell’ambiente sia sotto il profilo dei soggetti detenuti che del personale di polizia penitenziaria, consigliarono agli inizi dell’anno 1996 di riservare una delle tre sezioni ad ospitare soggetti detenuti resisi responsabili di reati di una particolare natura, i reati a sfondo sessuale, in un previsto regime di assoluta separatezza dagli altri detenuti.
Va detto che in altri istituti di pena la presenza di questa tipologia di soggetti detenuti aveva creato non pochi problemi di ordine e sicurezza, anche interni alle sezioni stesse in cui tali soggetti detenuti erano ospitati.
Contestualmente all’attivazione della sezione riservata ai c.d. “sex offenders” si provvedeva anche al reperimento di una attività lavorativa ad essi destinata, gestita da una cooperativa dal nome suggestivo (SPES), attività lavorativa consistente nella archiviazione computerizzata delle ricette per conto della sanità regionale.
È in questo contesto che l’Autore, giovane e brillante psicologo con una pregressa esperienza di lavoro in una comunità di recupero per tossicodipendenti, proponeva di attivare un “Progetto di intervento terapeutico rivolto a soggetti condannati per reati a sfondo sessuale”.
La proposta venne accolta dall’Amministrazione penitenziaria, il progetto iniziò ad essere applicato nel novembre 1996.
Nell’anno 2001 l’A. raccoglieva le proprie esperienze in un volume dal titolo anch’esso suggestivo: “La cura dell’orco”, che reca in copertina la riproduzione di un dipinto di sua proprietà, di Antonio Capovilla del 1996 intitolato “La Giustizia”, e pubblica il proprio lavoro ne “I Quaderni di Criminologia Clinica”, collana diretta dal prof. Ivano Spano della facoltà di psicologia dell’università di Padova e per i tipi della Edizioni Sapere - 2001 - Padova.
Superato lo ‘scoglio’ dell’introduzione e relativi ringraziamenti, l’A. dà la definizione dei problemi connessi al trattamento dei soggetti condannati per reati a sfondo sessuale, mostrando di possedere una consapevolezza, una approfondita lucida comprensione del mondo penitenziario. Dopo avere rimarcato la tendenza ad una progressiva espansione del fenomeno (300 i detenuti nelle sole carceri lombarde nell’anno 2001), egli afferma che i “sex offenders” sono etichettati non solo dalla società ma anche, se non di più, dai detenuti e che, per quanto paradossale ciò possa sembrare ed essere, sono essi stessi a condividere le rappresentazioni sociali e le relative argomentazioni, che li riguardano. Sia la società che gli altri detenuti li vedono come “mostri” e per ciò stesso se ne traggono sentimenti consolatori che li fa sentire come un po’ più ”normali”. Soccorre in ciò l’esperienza che l’A. ha consolidato con i soggetti tossicodipendenti, i quali dal loro “status” di malati traggono giustificazione ed auto-giustificazione per i reati commessi.
Tutto ciò non si verifica per i “mostri”.
L’A. così descrive il clima sociale, anche interno alle carceri: ”Chi si macchia di reati a sfondo sessuale incarna e rappresenta l’aberrazione umana. Come tale non ha possibilità di far ricorso ad alcuna seppur generica operazione difensiva. Non è un malato e non ha onore. Ciò a cui ha diritto, che si merita soltanto, è il confinamento al girone più periferico della marginalità. Restano quali estreme difese una ostinata negazione (sul fronte esterno) accompagnata da una continua tensione a rimuovere le vicende che hanno portato al reato (sul fronte interno)”.
Ed, ancora, così definisce le finalità dell’intervento: “promuovere un processo di modificazione degli atteggiamenti che sono di ostacolo ad una costruttiva partecipazione sociale”. Ed ancora: “Il carattere dell’intervento non è impositivo ed è reso esplicito che esso è anche completamente svincolato da qualsiasi riferimento alle misure premiali ed alle misure alternative alla pena.”. Né poteva essere diversamente, un taglio meno rigoroso avrebbe potuto inquinare il progetto, molto ambizioso, nella sua esecuzione pratica.
Quindi, l’A. illustra la sua metodologia, che ripartisce in varie fasi.
La prima fase è di contatto con il soggetto detenuto, di formulazione di una diagnosi psicologica e di una sua presa in carico. L’A. fa ricorso anche a ‘tests’ psicologici, se necessario e se giustificato dal detenuto (sono due le componenti della decisone di usare i “tests”, la loro necessarietà od opportunità valutata dall’esperto – l’autore - e la condivisione del detenuto). Quindi, il soggetto detenuto viene gradualmente introdotto nel gruppo formato da altri soggetti detenuti, nel cui interno si sviluppano dinamiche di confronti reciproci, modulate dalla presenza dell’esperto e basate sul rispetto delle regole che il gruppo stesso si è dato. Dal gruppo si può uscire in qualsiasi momento ed in questo caso l’esperienza si intende conclusa.
La seconda fase sostanzia il lavoro di trattamento analitico del gruppo, sulla base di vari punti cardine, cioè le regole cui si accennava sopra.
Le valutazioni conclusive del progetto seguono a momenti di valutazione ‘in itinere’ dei singoli casi. Il primo momento di valutazione avviene nel contesto del gruppo. Infine, i risultati sono messi a disposizione del Gruppo di Osservazione e Trattamento del carcere.
L’A. auspicava iniziative di formazione del personale, coinvolgenti tutte le professionalità interagenti nelle carceri. Tali iniziative sono state formalmente adottate, ma l’A. non ne ha fatto parte, in pratica ne è stato escluso, per motivi facilmente intuibili (di natura economica e di gelosia professionale).
Ciò non può non essere considerato un danno grave ed irreparabile, perchè era l’unico operatore che poteva vantare diversi anni di esperienza sul campo.
L’opera che si sta tentando di recensire, con forti dubbi di avere anche solo lontanamente fatto comprendere l’importanza sia del lavoro fatto che dell’opera in cui è stato raccolto, costituisce l’unico esempio italiano di ‘aggressione’ al problema dei “sex offenders” detenuti.
Sul campo si ha notizia di due altri esperimenti in altrettante carceri, ma non dei loro risultati.
Certo è che l’esperimento del carcere di Lodi ha avuto il pregio di far emergere il problema, mai in precedenza affrontato in Italia sotto il profilo terapeutico, dando inizio prima ad una ricognizione del problema stesso, il progetto c.d. “FOR W.O.L.F.” (Working On Lessening Fear) al quale l’A. veniva invitato a partecipare e quindi alla elaborazione di un progetto di formazione, denominato ”progetto Chirone”, del quale l’A. non veniva invitato a far parte.
Tuttavia, l’esperienza lodigiana dava risultati concreti, per i quali diversi detenuti “sex offenders” sono stati ammessi al lavoro all’esterno, liberi nella persona, ed hanno partecipato, assieme agli altri detenuti (unico esempio di integrazione) alla redazione di un mensile interno di informazione e cultura, che gli interessati chiamavano “UOMINI LIBERI” e che trovava ospitalità ogni mese nel quotidiano IL CITTADINO di Lodi, oltre ad essere distribuito, gratuitamente, in versione patinata.
Ed ancora, la stessa è stata oggetti di tesi di laurea di Elena Zeni, studentessa lodigiana della facoltà di giurisprudenza dell’Università degli Studi di Milano, dal titolo rigoroso “Il trattamento penitenziario dei condannati per violenza sessuale”.
L’esperienza lodigiana è purtroppo conclusa.
Ne resta preziosa testimonianza l’opera che si è tentato di recensire.
* psicologo, consulente anche per S. Vittore, uno dei fondatori dell’Osservatorio Regionale Autori di Reati a Sfondo Sessuale presso il Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria di Milano, referente regionale del Coordinamento Nazionale Psicologi Penitenziari, docente presso la facoltà di Psicologia dell’Università di Padova e presso l’Università Europea Jean Monnet di Bruxelles
** Ispettore generale dell’Amministrazione penitenziaria
”.
Ci presi gusto, avevo trovato qualcosa che mi assorbiva e mi impegnava molto, Roberto pubblicò quasi tutto ciò che gli inviavo, qualcosa non ne valeva proprio la pena, evidentemente.
Quando Roberto Ormanni lasciò la guida della sua creatura (un testata online quotidiana, un supplemento cartaceo settimanale), io non rinnovai gli abbonamenti, ma continuai a collaborare con una sua nuova testata giornalistica online "IL PARLAMENTARE" (ilparlamentare.it).
Nel frattempo collaboravo con una testata locale “IL GIORNALE DI EBOLI” (ilgiornaledieboli.it), curandone l’edizione online.
Finita quella collaborazione, decisi di aprire il blog “IL GIORNALIERI” (la sgrammaticatura è intenzionale). Di lì a scrivere delle mie esperienze ‘carcerarie’ il passo fu breve. Anche Ormanni le pubblicava, trovandole interessanti. Dopo 9-10 puntate, senza seguire una linea temporale ma solo il filo dei ricordi (non avendo mai presso appunti, avevo altro a cui pensare) logico che si pensasse e si tentasse di farne un libro.
Le motivazioni, la ragione d’essere di questo racconto, che attraverso tanti racconti, percorre tutta la mia vita totalmente calata nel mio lavoro, l’ha bene individuata Roberto Ormanni.
Ecco il suo pensiero.
L'umanità cancellata, gli sprechi eccetera che altri raccontano in riflessioni sul carcere nessuno lo mette in dubbio, però - soprattutto in Italia - la storia non è fatta dai "sistemi", dai meccanismi, dalle istituzioni in senso impersonale e astratto, perché questi (sistemi, meccanismo, istituzioni) o non funzionano, funzionano male o funzionano in modo parallelo per soddisfare bisogni - spesso illegittimi - di singoli invece delle necessità collettive. La storia d'Italia, passata ma anche presente, è fatta da uomini. L'ospedale funziona se c'è un bravo primario (perché con uno incapace il "sistema" non funziona); la giustizia funziona se ci sono bravi magistrati (e anche bravi avvocati), il carcere funziona se ci sono bravi dirigenti. Ecco perché, come diceva qualcuno e ripeteva Giovanni Falcone: povero il Paese che ha bisogno di eroi. L'Italia ha sempre bisogno di eroi, tutti i giorni: il benzinaio eroico che non ruba sulla benzina (ché altrimenti il "sistema", il "meccanismo" è fatto in modo tale che rubare sarebbe semplicissimo); il medico eroe che fa il suo dovere anche se la direzione amministrativa gli dice che non ci sono i soldi per le garze, il direttore del carcere eroe perché non approfitta del suo potere di affidare lavori di manutenzione, di ristrutturazione, a chi gli pare (per motivi di sicurezza è ammessa la licitazione privata) facendo il proprio interesse più che quello del carcere; il capo del dipartimento dell'amministrazione penitenziaria eroe perché non si limita a contenere lo status quo al fine di proteggere la sua lucrosa indennità di capo della polizia e, invece, si dà da fare per tentare di cambiare strada; l'impiegato comunale eroe perché sebbene il meccanismo gli consentirebbe mille scuse, si impegna per farci avere il certificato effettivamente in pochi minuti come prevede una legge scritta da qualcuno che non si è preoccupato di adeguare i "meccanismi"; il giornalista eroe perché rinuncia alla comodità del posto in seconda fila alla prima teatrale scrivendo ciò che è giusto - almeno per lui - sull'ultimo spettacolo in cartellone e non ciò che è "bene". Insomma, il nostro libro, secondo me, è la storia di ciò che accade tutti i giorni, è accaduto per trent'anni e continuerà ad accadere. E soltanto una piccola parte di questa storia sono i libri settoriali, ma tutto il resto di ciò che è raccontato da te (e da noi) per la gran parte rappresenta la ragione che, nonostante tutto, tiene in piedi un Paese che, se fosse all'epoca degli antichi greci, sarebbe stato abbandonato per fondarne un altro e, con esso, fondare una nuova etica pubblica e una nuova morale privata.


Luigi Morsello

2 commenti:

Antonella Blasetti ha detto...

Prima di tutto congratulazioni!

Un libro!!

Mi ha colpito la frase sugli eroi. E' vero, è triste che un paese ne abbia bisogno.

Da noi questa necessità è endemica.

Non so nulla delle carceri (il titolo, a proposito, è bellissimo), penso che gestire un penitenziario sia un lavoro duro, ma sono anche certa, come dici tu, che al pari di altri luoghi di sofferenza, permetta alle persone speciali di vivere le esperienze che danno valore ad una vita.

Grazie

LUIGI A. MORSELLO ha detto...

Grazie. Qui c'è il link di una prima presentazione: http://ilgiornalieri.blogspot.com/2010/01/la-mia-vita-dentro.html
Ho fatto un po' di confusione.