domenica 24 gennaio 2010

Ma la regina bussava per entrare in Parlamento


di EUGENIO SCALFARI


Una nuova imputazione (per truffa fiscale) contro Silvio Berlusconi da parte della procura di Milano per fatti accaduti in anni recenti e con effetti che si estendono fino al 2009. Riguardano l'acquisto di diritti di film proiettati dalle reti Mediaset. I prezzi, secondo la tesi della Procura, sarebbero molto al di sopra di quelli correnti sul mercato e Mediaset non avrebbe trattato con le case di produzione americane ma con un intermediario, rimettendoci anziché guadagnandoci. Ma l'intermediario avrebbe accantonato il super-profitto in conti misteriosi in paradisi fiscali e poi, dopo molti e complicati percorsi bancari, sarebbero infine arrivati nelle tasche di Berlusconi che avrebbe così creato una massa importante di fondi neri. La frode (sempre secondo la tesi della Procura) avrebbe danneggiato non solo il fisco ma anche gli azionisti di Mediaset, società quotata in Borsa, salvo ovviamente l'azionista di maggioranza che anzi ne sarebbe stato il beneficiario.

L'intera questione è stata già ampiamente raccontata sui giornali di ieri e non starò dunque ad occuparmene se non per un aspetto politico: quello immediatamente sollevato dall'avvocato Ghedini, grillo parlante del premier, che ha visto in questa incolpazione l'ennesimo intento persecutorio delle "toghe rosse" reso ancor più odioso dalla voluta coincidenza con la campagna per le elezioni regionali.
In realtà quella coincidenza non danneggia affatto Berlusconi dal punto di vista politico; l'esperienza consolidata insegna che la veste di vittima gli ha sempre giovato, il danno se mai l'hanno subito le forze politiche che lo contrastano e che passano anch'esse come persecutorie e mandanti delle "malefatte" dei magistrati.
Ma in questo caso il "fumus" persecutorio è difficilissimo da sostenere
. L'indagine giudiziaria è cominciata infatti nel 2005, in quello stesso anno la Procura ha disposto il sequestro conservativo di 100 milioni di dollari dell'intermediario.

Sono stati effettuati decine di interrogatori e acquisiti centinaia di documenti; l'attività istruttoria ha dato luogo a 45 mila pagine di verbalizzazioni nonostante che i sostituti procuratori lavorassero in condizioni disagiatissime, mancando perfino di segretari che li aiutassero nel disbrigo delle pratiche.

Nel frattempo si sono svolte in Italia varie consultazioni elettorali, nazionali e locali, senza che l'istruttoria in corso fosse usata per turbare ed influenzarne l'esito. Può essere spiacevole la coincidenza in quest'occasione, ma il vittimismo esibito dal solito Ghedini non ha alcun appiglio. I procuratori hanno ora concluso il loro lavoro e si accingono a chiedere al gip il rinvio a giudizio degli indagati. Il premier e i suoi supposti complici dovranno difendersi in giudizio, come accade ad ogni imputato che non sia protetto da leggi appositamente create dal governo e dalla sua ferrea maggioranza di replicanti.

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Quest'ultimo punto - questo sì - è materia di dibattito di questi mesi e di questi giorni. è stata approvata tre giorni fa in Senato la legge sul "processo breve" che passerà ora all'esame e al voto della Camera. In quella sede è nel frattempo in discussione un altro disegno di legge sul "legittimo impedimento" che ha lo stesso fine di evitare che i processi pendenti contro il premier abbiano luogo fino a quando un terzo disegno di legge, in questo caso costituzionale, il cosiddetto Lodo Alfano numero 2, possa esentare interamente il premier da ogni responsabilità giudiziaria per tutto l'esercizio del suo mandato politico.

Aleggia infine una quarta possibilità, quella cioè di estendere e rafforzare l'istituto dell'immunità parlamentare. Si tratterebbe anche in questo caso d'un emendamento alla Costituzione vigente (articolo 68) che richiede un tempo più lungo d'una legge ordinaria; il testo di questo disegno di legge dovrebbe quindi essere varato al più presto e dovrebbe - nei piani del governo - avere l'appoggio di almeno una parte dell'opposizione per essere approvato con la maggioranza qualificata richiesta per le leggi costituzionali, in mancanza della quale si dovrebbe procedere al referendum confermativo il cui esito sarebbe molto incerto.

Il Partito democratico sta considerando il possibile contenuto di questo rafforzamento dell'immunità, con la quale non verrebbero protette soltanto le quattro maggiori cariche istituzionali ma tutti i membri del Parlamento. Il nostro giornale ha pubblicato ieri una lettera indirizzataci dall'onorevole Violante, nella quale è spiegato l'atteggiamento del Partito democratico sul tema dell'immunità; ad essa ha risposto Gustavo Zagrebelsky. Chi ha letto quei testi è dunque informato delle rispettive tesi dei due interlocutori. Su di essere farò qualche mia riflessione.

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Comincio con un episodio che può chiarire il senso dell'immunità parlamentare.
Avvenne nei primi anni Sessanta del secolo scorso. Ero andato a Londra per intervistare l'allora Cancelliere dello Scacchiere, un titolo che andrebbe a pennello al nostro Tremonti. Fatta l'intervista, il Cancelliere con grande cortesia mi fece accompagnare da un suo collaboratore alla Camera dei Comuni che avevo espresso il desiderio di visitare. Andammo a Westminster, visitai l'aula e i suoi dintorni, e il mio esperto accompagnatore mi raccontò alcune curiose liturgie che ancora venivano praticate pur essendo ormai puramente simboliche. La principale riguardava il discorso della Corona, unica occasione in cui la Regina entrava in quell'edificio. La carrozza arrivava a poca distanza da Westminster e un araldo del seguito entrava nell'aula per informare lo "speaker" che sua Maestà veniva a pronunciare il suo discorso. A quel punto lo speaker impartiva con voce stentorea l'ordine di chiudere il gran portone d'accesso.

Eseguito l'ordine il capo della Guardia reale bussava alla porta e annunciava che sua Maestà chiedeva di entrare e di incontrare "i fedeli Comuni d'Inghilterra". Lo speaker a quel punto ordinava di aprire il portone e la Regina faceva il suo ingresso lasciando la Guardia fuori dalla porta, scortata dalla Guardia della Camera dei Comuni. Nel Settecento questo era il modo simbolico per dimostrare la separazione dei poteri e l'assoluta indipendenza dei "fedeli Comuni" rispetto al Sovrano. Montesquieu proprio in quegli anni scriveva "L'esprit des lois" che fu la tavola fondativa dello Stato di diritto.

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Lo Stato di diritto, cioè appunto la separazione dei poteri e l'eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge, precede la democrazia e si attua anche in presenza di monarchie dotate di ampi poteri. È la premessa necessaria anche se non sufficiente al pieno avvento dei regimi democratici, dei quali le Costituzioni rappresentano il coronamento.

Quanto all'immunità, essa fu istituita per proteggere il potere legislativo dalle interferenze dell'esecutivo e del giudiziario che, all'epoca, dipendeva dai poteri del Sovrano a nome del quale i giudici proclamavano le loro sentenze. Riguardava soltanto i reati che i membri del Parlamento potessero aver commesso nell'esercizio delle loro funzioni: l'arresto doveva essere autorizzato dal Parlamento a garanzia dell'autonomia dei propri membri.

Quando in Italia fu scritta la Costituzione del 1947, ci fu ampio dibattito sull'immunità. Venivamo da vent'anni di dittatura, con una magistratura fortemente condizionata dal governo. Relatore su quell'argomento fu Costantino Mortati.
L'orientamento fu uniforme: il Parlamento doveva autorizzare l'inizio del processo, le perquisizioni domiciliari, le intercettazioni, l'arresto, salvo che avvenisse in flagranza di reato. Il Parlamento poteva impedire l'arresto anche se disposto dalla giustizia in esecuzione d'una sentenza passata in giudicato.

I pareri dei commissari e poi dell'aula furono quasi unanimi, con la sola eccezione dell'onorevole Leone che si dichiarò contrario all'autorizzazione necessaria anche per l'arresto in esecuzione di sentenze, ma rimase solo e il testo dell'articolo 68 approvò quelle decisioni. Il relatore espresse la certezza che la Giunta per le autorizzazioni a procedere valutasse attentamente il reato ad essa sottoposto e che il verdetto fosse sulla natura del reato cioè fosse connesso strettamente con l'attività parlamentare del supposto reo.

La prassi successivamente invalsa dimostrò purtroppo il formarsi di un clima omertoso in forza del quale - salvo eccezioni molto rare - l'autorizzazione a procedere fu negata sistematicamente trasformandosi in un privilegio.
Nel 1993, in piena "Tangentopoli", l'articolo 68 fu modificato, la potestà parlamentare di poter negare l'arresto anche in casi di sentenze giudicate fu abolita; così pure fu abolita l'autorizzazione per l'inizio del procedimento giudiziario. Rimase invece per quanto riguarda le perquisizioni domiciliari, le intercettazioni telefoniche e l'arresto.

Questi poteri del Parlamento ci sono tuttora, né credo, nei progetti di riforma si preveda di reintrodurre l'autorizzazione per l'arresto in esecuzione di sentenze.
Si vuole, invece da parte del governo, reintrodurre l'autorizzazione per l'inizio del processo.

Il Partito democratico è disposto ad esaminare queste proposte ma pone come condizione un limite di tempo: vuole che il rafforzamento eventuale dell'immunità sia valido per una sola legislatura che è quella in corso. Vuole inoltre una contropartita pertinente: una riforma della legge elettorale che ripristini in qualche modo il voto di preferenza sperando così che i parlamentari possano giudicare col proprio cervello non condizionati dal potere degli apparati e soprattutto del governo.

Nella sua risposta all'onorevole Violante, Zagrebelsky fa una premessa della massima importanza: rileva che il governo ha già in parte cambiato e ancor più cambierà la Costituzione senza alcun apporto dell'opposizione, trasformando la democrazia parlamentare in una democrazia di stile autoritario. Questo risultato è già in gran parte avvenuto e ancor più sarà perfezionato quando saranno passate le leggi in discussione, con la svalutazione sistematica dei poteri di controllo, a cominciare dallo stesso Parlamento, dalla magistratura, dalla Corte costituzionale e dal Capo dello Stato. In queste condizioni, sostiene Zagrebelsky, è questo il "trend" che occorre bloccare ed invertire; fintanto che ciò non avverrà è inutile favorire un accordo "bipartisan" sul rafforzamento dell'immunità anche se, aggiunge Zagrebelsky, "una riforma elettorale sarebbe non solo opportuna ma necessaria". Penso anche io (e l'ho scritto più volte) che bloccare la deriva verso un sistema autoritario, già molto avanzata, sia un preliminare necessario. Penso tuttavia che questo obiettivo sia difficilmente raggiungibile fino a quando il consenso popolare a Berlusconi resterà ancora ampio e compatto. Di fatto con poche alternative, dato lo stato incerto e altalenante dell'opposizione. Ci vuole un lavoro culturale oltre che politico per cambiare una situazione così pregiudicata.

Intanto l'attività parlamentare proseguirà e sarà ben difficile rifiutare il confronto sui temi di volta in volta in discussione. Bisognerà affrontarli con fermezza e chiarezza di idee.

Per quanto riguarda l'immunità, la limitazione ad una sola legislatura non ha molto senso e non otterrà alcun risultato. Assai più efficace mi sembra l'idea, lanciata dall'ex procuratore D'Ambrosio, di obbligare chi ha evitato i processi a causa dell'immunità, di affrontare i suoi doveri verso la giustizia e di fare del mancato rispetto di questa norma una condizione di ineleggibilità che duri fino a quando il processo non sia celebrato. Questa sì, sarebbe una contropartita sufficiente. Altre francamente non ne vedo.

(24 gennaio 2010)

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