martedì 12 gennaio 2010

Nelle carceri trentamila dimenticati in attesa di giudizio



TUTTI I NUMERI DELLO SCANDALO
di Silvia D’Onghia


“Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”: se si pensa ai 65.774 detenuti ammassati nelle carceri italiane, a fronte di una capienza di 43.220 persone, l’articolo 27 della Costituzione sembra fantascienza. I detenuti aumentano in media di 800 unità al mese: questo significa che, se non si interviene subito, il loro numero nel giugno 2012 raggiungerà quota 100 mila. Altro che bacchettate dal Consiglio d’Europa, che in più di un’occasione ha richiamato il nostro paese al rispetto dei diritti umani. Bisogna fare qualcosa, e farlo subito: lo chiedono i Radicali, che ieri hanno presentato una mozione alla Camera firmata da 93 deputati (che impegna il governo a varare una riforma radicale in materia di custodia cautelare, tutela dei diritti, esecuzione della pena e trattamenti sanzionatori e rieducativi) e stamane manifestano con un sit-in dinanzi Montecitorio.
Tre anni dopo l’ultimo indulto, il sistema penitenziario è di nuovo al collasso. Basta guardare con attenzione le cifre: secondo uno studio del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, circa la metà dei detenuti è costituito da persone in attesa di giudizio e un 30 per cento di loro verrà assolto al termine del processo. E’ quasi nullo il ricorso alle misure alternative al carcere, le uniche in grado di far abbassare il tasso di recidiva. Il 68 per cento di coloro che scontano la pena in cella torna a delinquere, mentre il tasso di recidiva è del 28 per cento tra chi paga il suo debito allo Stato con una misura alternativa. Eppure il 32,4 per cento dei detenuti deve scontare un residuo di pena per una condanna definitiva inferiore ad un anno, il 64,9 inferiore a tre (e sono proprio i tre anni il limite sotto il quale si può aver accesso alla semilibertà o all’affidamento in prova).
Soltanto uno su quattro ha la possibilità di lavorare e uno su dieci può partecipare a percorsi professionali.
Fino allo scorso 10 novembre, gli stranieri rappresentavano, con le oltre 24 mila unità, il 27 per cento del totale delle persone recluse. Ancora di più, circa 26 mila, secondo un rapporto dell’associazione Antigone, sono i detenuti per reati di droga, mentre il 27 per cento della popolazione penitenziaria è sieropositiva. Ciò dimostrerebbe allora come si ricorra sempre meno all’approccio terapeutico (nel 2007 sono state 16 mila le persone ricoverate nelle comunità terapeutiche). Numeri che, dall’esterno, parlano di grandi fallimenti, ma che, dall’interno, mettono a rischio la salute fisica e mentale. Non è un caso che il 2009 sia stato l’anno record per i suicidi in carcere: l’associazione Ristretti Orizzonti ha contato 72 persone che si sono tolte la vita impiccandosi all’interno della propria cella. 175 le morti negli istituti penitenziari. E il 2010 certo non è iniziato bene: nei primi otto giorni del nuovo anno si contano già quattro suicidi. E si perde il conto dei tentati suicidi o dei gesti di autolesionismo .
La commissione Giustizia del Senato ha constatato come appena il 20 per cento dei detenuti risulti in buone condizioni di salute, il 38 per cento sia in condizioni mediocri, il 37 per cento scadenti e il 4 per cento gravi. Moltissimi sono coloro che soffrono di depressione e altri disturbi psichiatrici (spesso sono le stesse condizioni penitenziarie a determinarli: sovraffollamento, lontananza da casa e quindi impossibilità di incontrare familiari, assoluta inattività) ma, nonostante questo, rimangono dentro. Tra le patologie più diffuse anche problemi di masticazione, osteo-articolari, Aids ed Epatite B. Per far fronte a questa situazione, spesso la medicina penitenziaria è povera di risorse, di strumenti e di mezzi.
Ma i problemi non sono soltanto dei detenuti
. Un decreto ministeriale del 2001 prevedeva 41.268 agenti penitenziari: “Il 30 novembre 2009 risultavano essercene 38.537. Non si perda ulteriore tempo”, spiega il segretario generale del Sindacato autonomo polizia penitenziaria, Donato Capece.
E’ per questo che oggi, in piazza, oltre agli stessi Radicali, ci saranno anche loro, i sindacati dei poliziotti (Sappe, Uilpa penitenziari, Osapp, Fpc Cgil) e i dirigenti degli istituti aderenti al Sidipe. Perché l’articolo 27 della Costituzione non resti ancora carta straccia.

1 commento:

LUIGI A. MORSELLO ha detto...

La prognosi è infausta!