di Gianfranco Pasquino
Lo stato di salute del Partito democratico, politicamente e organizzativamente parlando, è davvero poco buono. Lascio da parte la cosiddetta “questione morale” perché la mia interpretazione è che, quando un partito non è in grado di controllare il reclutamento, la selezione, la promozione dei suoi simpatizzanti e iscritti, dirigenti e candidati, lì nasce la questione morale, nelle défaillances, nelle smagliature organizzative, nelle collusioni interne ed esterne.
Il fatto è che i due protagonisti iniziali del Partito democratico, Prodi e Veltroni, che lo vollero fortemente, sembrano fuori gioco e che il partito è nelle mani di Bersani e di D’Alema, certamente non fra i più entusiasti sostenitori della prima ora.
In realtà, l’obiettivo di Prodi e Veltroni era sembrato essere un altro, più ambizioso e di maggiore respiro di un semplice Partito democratico.
Era l’Ulivo che, nella sua versione originaria, doveva costituire molto di più che una somma di due partiti, proiettandosi certamente parecchio oltre la allora inesistente Margherita e l’allora stagnante Partito democratico di Sinistra. La nostalgia per un passato, che non ebbe mai una sua concreta traduzione, deve fare riflettere anche sugli errori.
Due volte Prodi, che adesso viene variamente invitato a tornare in campo, ad esempio, per fare il sindaco di Bologna, rifiutò di diventare il capo di un organismo chiamato Ulivo: nel 1996, subito dopo le elezioni, e nel 2005 subito dopo le “sue” primarie. Segnare da parte sua uno stacco netto fra il ruolo di governante e la carica di capo del partito-organizzazione a suo sostegno fu, in entrambi i casi, abbiamo poi visto com’è andata a finire, un errore gravissimo, irreparabile. Adesso, è sicuramente troppo tardi, per di più dopo il suo rifiuto di fare il presidente del Partito democratico ruolo, che, avrebbe potuto anche non essere soltanto cerimoniale. Invece di farsi invocare per togliere dal fuoco le troppe castagne democratiche, Prodi avrebbe avuto l’opportunità, dall’alto della presidenza del Pd, di evitare che ci venissero messe sul fuoco, quelle castagne. L’altro co-protagonista dell’Ulivo, Veltroni (ricordo che fu vicepresidente del Consiglio dal maggio 1996 all’ottobre 1998), non va privo di errori.
La sua impetuosa e sconsiderata campagna per la sua elezione popolare alla segreteria del nascente Partito democratico non poteva non avere come conseguenza la destabilizzazione del governo Prodi.
La logica democristiana, “il segretario del partito più grande è il successore naturale del presidente del Consiglio in carica”, era e risulta implacabile. Purtroppo per lui, Prodi non disse abbastanza alto, forte e frequente, “il capo politico del Pd sono io; Veltroni ne è il segretario organizzativo”. Alquanto inconscientemente, Veltroni non prese atto che era inevitabilmente, persino, troppo speranzosamente, percepito come il successore designato di, ma non da, Prodi. E fu crisi, di cui Veltroni neppure intuì il sopravvenire e per la quale, in una orgogliosa intervista al Corriere della Sera, non sente di dovere fare autocritica alcuna. Certamente, “il senso” ad una “storia” che, coerente con il suo slogan elettorale, Bersani vuole dare, non sembra affatto riferirsi alla breve storia dell’Ulivo e dell’immagine del Pd che Prodi e Veltroni hanno frequentato. Ricostruire il Partito comunista non si può; ridare fiato ai Democratici di Sinistra non si deve; costruire un Partito socialdemocratico non si vuole. Non resta, pertanto, che resuscitare l’Ulivo ovvero qualche cosa di molto simile. Ma bastano le punzecchiature di Prodi, da un parte, e la proposta di una Scuola di politica di Veltroni dall’altra, per costruire una nuova organizzazione politica? Le classi politiche non nascono nelle scuole, dove, al massimo, si possono apprendere alcune tecniche (magari la politica si studia e si impara meglio nelle facoltà di Scienze politiche e affini).
Affinché nasca una nuova classe politica, fenomeno nient’affatto affidabile alle giovani generazioni, è necessario un progetto politico chiaramente delineato; sono indispensabili referenti sociali; sono decisive le battaglie politiche, locali più che nazionali. Quando dall’alto del Partito democratico verrà meno il desiderio di controllare le dinamiche locali e dal basso cresceranno la voglia e il coraggio di impadronirsi del proprio territorio senza cercare sponsor nazionali, in un eventuale conflitto aperto, allora si vedrà chi ha filo da tessere. Fintantoché i gomitoli rimangono nelle mani di alcuni dirigenti inamovibilmente seduti a Roma, meglio se dentro il Parlamento, lo spazio per “l’innovazione, la radicalità riformista, la legalità, le primarie” (uso le parole di Veltroni nell’intervista citata) sarà minimo, sostanzialmente inesistente, schiacciato dalle appartenenze correntizie, anche da quelle “veltroniane”.
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