di Luigi Galella
“C’era una volta la città dei matti” (RaiUno, domenica e lunedì, 21.10) suscita un’irrefrenabile nostalgia. Il rimpianto di uno slancio umano e culturale, oggi dissolto, che spingeva negli anni ’60 alcuni spiriti un po’ “pazzi”, come il neuropsichiatra Franco Basaglia, a spezzare le catene del conformismo.
E a misurarsi con l’altro, la diversità, la follia svestita dai cliché, dietro le cui croste si potevano scorgere e quindi liberare, con pazienza e cura, gli uomini e i loro desideri. A lungo imprigionati, reclamavano d’essere riconosciuti nella loro semplice, umana verità.
Come Boris, un omone che viveva legato al letto dell’ospedale e la cui sola vista – “è un tipo pericoloso”, mormoravano tutti – incuteva il terrore. La nostalgia dell’ostinazione e del coraggio.
Quella virtuosa cecità che non si ferma di fronte agli ostacoli quando si persegue un’idea, e che oggi forse apparirebbe velleitaria, dalla scarsa “redditività”.
Con calcolo miserabile, staremmo lì a misurarne la “convenienza” sociale ed economica.
Molto meglio, concluderemmo, tenerli rinchiusi piuttosto che liberi, i pazzi. “Nessuno pensava che fossi matto, forse perché studiavo psichiatria”, è l’ironico incipit.
E’ il protagonista, Basaglia, (Fabrizio Gifuni) a raccontare in prima persona. Drammatiche, le scene che seguono, che ci portano in medias res.
Vediamo una giovane, bella ragazza, Margherita (Vittoria Puccini) condotta dall’ossessiva madre in manicomio, prelevata da alcune infermiere che la denudano e le fanno ingerire un sonnifero.
Si risveglia di notte, circondata dai volti delle altre degenti, che la circondano, altre sono legate ai loro letti. Una di loro le infila una mano sotto la camicia, lei si ribella, l’aggredisce. Le urla, il frastuono. Intervengono le infermiere che la conducono in bagno, la infilano nella vasca, le coprono la testa con un cappuccio e le versano sopra dell’acqua gelida.
Scene che ci appaiono come la crudele testimonianza di un’opera di finzione, e che invece rappresentavano allora la norma terapeutica. Lo stesso ospedale sarà presto diretto dal “rivoluzionario” Basaglia – formatosi alle idee di Jaspers e Binswanger e al pensiero di Michel Foucault – che ne modificherà completamente la struttura, fino a far cadere i confini, le barriere fisiche, che tenevano segregati i malati. Una rivoluzione fatta anche di piccole cose, come quella di consegnare a ognuno un comodino, con gli oggetti che gli erano stati tolti al momento dell’ingresso in ospedale. Per poter “entrare in contatto con le persone che la follia ci nasconde”. Il film è stato prodotto da Claudia Mori ed è molto al di sopra dello standard medio televisivo.
Nella sceneggiatura, nella recitazione, nella regia.
Toccato dalla “grazia”, dalla forza intrinseca dei personaggi e delle storie che descrive, restituiti alla finzione cinematografica con miracoloso, sorprendente equilibrio.
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