mercoledì 24 marzo 2010

La guerra come lavoro


di Furio Colombo

Un titolo difficile – difficile anche in inglese – ha frenato la popolarità del film di Kathryn Bigelow fino allo straordinario evento dell’Oscar, il primo per una regista donna, ma il primo anche per un film non popolare e non amato. Anche adesso, con quell’Oscar e quella immagine di regista, la produzione ha scelto la rapidissima distribuzione di Dvd, piuttosto che il percorso tipico dei film molto premiati, la ricerca del trionfo nelle sale. La ragione – credo – è che Hurt Locker è una intelligente creatura introversa. Mostra molto, ma non dice tutto; e questo fatto forse imbarazza anche chi lo ha premiato. Ci sono molte fratture col passato, non solo la regista brava e donna.

Hurt Locker è il primo film della guerra scelta come professione e di una professione specialistica – esplosivo e bombe – scelta dentro la guerra. C’è una breve sequenza esemplare, verso la fine del film, in cui Hurt Locker sembra sul punto di rivelare la sua vera, straordinaria novità, sembra sul punto di confessare che – seguendo vita e avventure del soldato James – stiamo entrando in un mondo nuovo, quasi del tutto sconosciuto.

Qui dovere, patria, bandiera, sono un fondale inevitabile di identificazione, ma non sono più la ragione per cui devi andare a morire. Qui nessuno “deve”. Qui ciascuno può dire sì e no. Valuta, decide, firma, si prepara, parte, esercita la sua funzione professionale, torna e – se si sente legato al lavoro che sa fare bene – firma di nuovo e parte di nuovo.

La sequenza esemplare – ovvero il punto breve e netto di spiegazione del film – è nel ritorno a casa del protagonista. Ha il bambino in braccio, una giovane moglie accanto, che lo ascolta e non lo ascolta mentre è occupata in cucina. E tutto è sospeso. Lei non è né indifferente, né ansiosa. È paziente, come tutte le mogli, e ha da fare.

Lui riflette ad alta voce sul lavoro a cui – si capisce – è legato. Riflette sulla vita mentre tocca il bambino, abitante di una vita remota che conosce poco.

Un istante dopo, siamo di nuovo in Iraq. James sta indossando tuta e scafandro che dovrebbero proteggere lo specialista (ma abbiamo già visto che non sempre proteggono), sta camminando goffo, con quel passo da astronauta inchiodato in terra, verso un kamikaze disperato, una potentissima bomba umana. Sembra il momento giusto per dire com’è cambiata la guerra, nel mondo del suicidio come strategia di combattimento.

Invece è il momento giusto per capire come è cambiato il soldato.

Non è popolo, non è strappato alla sua casa e al suo villaggio, separato per forza dai suoi cari, dal suo lavoro, forse motivato dall’amor di patria, ma comandato comunque dal suo Paese, dal suo governo, dalla politica, a fare la guerra come i soldati di leva.

Non è il combattente che rimpiange i soldati perduti o segnati per sempre dalle ferite, pensandoli, rivedendoli nella vita civile, in pace. Per quella guerra di soldati coscritti, che forse partono cantando, ma che non sarebbero mai partiti di propria iniziativa, ci sono storie di eroismo, aneddoti di solidarietà, vicende esaltanti o tristi, voci di denuncia. L’eroe è qualcuno che si butta – anima e corpo – fuori dalla sua vita in nome della vita di tutti. Per quella guerra si contrappongono interventismo e pacifismo e – a livelli più cauti e politicizzati – giudizi a sostegno della guerra e movimenti che dissentono e si mobilitano contro la guerra. In altre parole, l’opinione pubblica conta molto e bisognerà dedicarvi molta attenzione perché l’opinione pubblica comprende i soldati, le loro donne, i loro bambini, le loro madri, i loro padri.

Tutto finito. Paradossalmente la controparte, adesso, sono i soldati. Perché camminare verso l’ordigno nascosto che sta per esplodere è un lavoro importante. Col tempo, ci dice la regista Bigelow nel suo film difficilmente dimenticabile, il solo lavoro, da fare a regola d’arte, con rischio. Il rischio diventa vita.

Fra quella vita e l’esperienza di tutti c’è il muro di prodotti di un supermercato. In una scena che dura un istante, si capisce che quel muro separa per sempre due mondi, la pace e la guerra. Non sono più opposti, convivono.

La Bigelow non ci sta dicendo che si sta formando un mercenariato. Sta raccontando la storia della guerra professionale che i governi non devono più negoziare con l’opinione pubblica. L’opinione pubblica, anzi, è bloccata in un guado fra prima e dopo. Nel prima conserva il doveroso – ma anche naturale – legame con “i nostri ragazzi”. Del dopo si preferisce che si sappia poco. Per esempio, si tengono lontani i giornalisti, o li si addestrano a un nuovo mestiere. La produzione di storie di guerra, che ha creato formidabili legami fra soldati e popolo fino alla guerra in Vietnam , finisce di colpo. I giornalisti o sono “embedded” – e dunque legati a un reparto militare che ne diminuisce la capacità di vedere e ne esalta la lealtà – oppure sono agenti che agiscono a proprio rischio, indipendenti ma privi di sostegno ed esposti a ogni pericolo, come Daniel Pearl o Giuliana Sgrena.

The Hurt Locker è una storia che i giornalisti di guerra non possono più narrare. È un giro di esattezza implacabile nella mente di un soldato di professione, che esplora il pianeta guerra quasi da solo, non per ragioni universali o nazionali o ideali. Ma seguendo il percorso stretto della logica specialistica, del suo training perfetto.

La nuova alternativa è morte-vita, non pace-guerra. Come si vede nella breve, disorientata scena del temporaneo ritorno in famiglia, non è prevista una fine, uno “scoppio della pace”, come ai tempi delle vecchie guerre. Qui c’è un lavoro solitario, un brivido di morte da solo. Per questo – per la prima volta in tutti i conflitti – le bare dei soldati morti in Iraq sono tornate in segreto, spedite direttamente alle famiglie, senza televisione, senza celebrazioni, senza cerimonie pubbliche. “Dopo tutto sono pagati”, ha detto il presidente Bush con molta sincerità e molto cattivo gusto, ai giornalisti del programma “Sixty Minutes”, della CBS americana, nella sua ultima intervista. Tutto il resto, chiaro, logico, triste, come in nessuna guerra finora, ce lo ha raccontato Kathryn Bigelow.

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