25/4/2010
MICHELE AINIS
L’ultimo episodio si è consumato ieri. Il prossimo accadrà domani, o magari già stasera. Dal lodo Alfano al decreto di riordino delle fondazioni liriche, non c’è provvedimento normativo del governo sul quale non s’invochi l’altolà del Capo dello Stato.
Come un baluardo estremo contro l’invasore. Sicché la Resistenza di cui celebriamo l’anniversario, oggi s’incarna - nell’immaginario collettivo - nel doppiopetto blu del Presidente, un uomo solo nel deserto abbandonato dai politici.
Come si è innescato questo clima? C’è indubbiamente una responsabilità generale dei partiti, incapaci di rinnovarsi e di rinnovare la faccia rugosa del Paese, refrattari alla legalità, abitati per lo più da carrieristi senz’anima e senza ideali. Da qui il divorzio fra eletti ed elettori, da qui la crisi di legittimazione e di fiducia che investe la politica. Le prove? Basta contare il popolo del non voto alle scorse elezioni regionali: quattro italiani su dieci.
C’è poi, in secondo luogo, una specifica responsabilità della maggioranza di governo. Non perché in questo biennio l’esecutivo non abbia saputo cogliere successi concreti, liberando il Paese dai veti incrociati che paralizzarono l’azione di Prodi, risolvendo alcune emergenze nazionali, procedendo con passo spedito alla realizzazione del programma di governo. Il guaio è che troppo spesso i suoi ministri marciano con un elmetto in testa, trattano il Parlamento come un accidente fastidioso, scambiano la Repubblica per un sultanato. Da qui la deriva plebiscitaria e populistica che percorre ormai le stesse istituzioni; da qui l’insofferenza per le regole, nonché per i custodi delle regole. Da qui, in breve, la sovraesposizione del nostro Presidente, costretto ad arbitrare una rissa quotidiana fra i poteri dello Stato.
Ma c’è anche, in terzo luogo, una precisa responsabilità della minoranza parlamentare, e dunque soprattutto del Pd. Sta di fatto che dopo lo scontro pubblico fra Berlusconi e Fini, il Popolo della libertà occupa ormai tutti gli spazi della scena politica italiana, è maggioranza e opposizione insieme, tanto l’opposizione di sinistra ha già lasciato libera da tempo la poltrona su cui stava seduta. Per impotenza? Per mediocrità politica? Perché l’unico sport che appassiona i signori del Pd è la caccia al segretario? Non è qui importante ragionare sulle cause.
Ma gli effetti sul suo elettorato sì, quelli possiamo misurarli senza bisogno d’inforcare un paio di occhiali. Se il partito non sa più difendere i valori per cui a suo tempo l’ho votato, allora non mi resta che confidare nei garanti, nelle istituzioni super partes. Può trattarsi del presidente della Camera, o dei giudici costituzionali, o per l’appunto del Capo dello Stato.
Ma non è affatto questo il loro mestiere, e non è questo l’abito che la Costituzione cuce addosso al Capo dello Stato. Lui ha il potere di convalidare gli atti legislativi, può dunque negare la sua firma a un decreto legge oppure rifiutare la promulgazione d’una legge approvata dalle Camere. Però non è un re repubblicano, non è una terza Camera cui spetti valutare il merito della decisione politica confezionata in una legge. Non è neppure una Corte Costituzionale di primo grado, con un semaforo rosso sempre acceso sui vizi di legittimità. Il Presidente - afferma l’articolo 87 della nostra Carta - rappresenta l’unità nazionale. Tirarlo per la giacca in nome della disunione è un pessimo servizio alle nostre istituzioni.
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