17/4/2010
MARIO TOZZI
La crisi dei voli su gran parte dell’emisfero boreale è solo apparentemente surreale: è invece la realtà di un pianeta che non la smette di manifestarci la sua inesauribile vivacità. Succede anche da noi, come ben sanno i catanesi o i reggini che rimangono a terra ogni volta che l’Etna si fa sentire. Ed è accaduto decine di volte agli islandesi, che addirittura sono rimasti vittime a migliaia nel 1783, quando si scatenò la grande eruzione di Lakagigar. Oltre venti bocche eruttive e un fiume di lava veloce che correva a quasi 15 km al giorno fino a coprire oltre 550 chilometri quadri di territorio nella parte meridionale dell’isola. Quando l’eruzione terminò, una specie di nebbia bluastra ricca di vapori di zolfo oscurava il Sole, uccideva il bestiame e rendeva velenosa l’aria. Durante l’inverno circa 10 mila islandesi (sui 50 mila che contava l’isola allora) morirono di fame a causa della grave carestia che ne conseguì.
Non c’è da meravigliarsi se un’eruzione vulcanica ha effetti così vistosi e non c’è neppure bisogno di tornare tanto indietro nel tempo. Nel 1991 il Pinatubo esplode nelle Filippine: è l’eruzione vulcanica più potente del XX secolo, anche se per fortuna i morti sono stati solo mille (200 mila gli evacuati). Ma vasti appezzamenti di terra sono ricoperti dalla cenere, mentre oltre 40 mila edifici vengono devastati dalle nubi ardenti. La parte superiore del vulcano viene spazzata via dalla potenza dell’eruzione che eietta nell’atmosfera 10 chilometri cubi di ceneri, scorie e lapilli in colonne alte fino a 40 chilometri. Sulle Filippine il cielo rimase scuro per settimane nel cuore dell’estate e le ceneri raffreddarono l’atmosfera, mentre in tutto il Sud-Ovest Pacifico le temperature dell’aria si abbassarono di colpo. Della spettacolare eruzione del Pinatubo alle nostre latitudini non si è tanto avvertito l’abbassamento delle temperature - pure verificatosi -, quanto lo straordinario colore rosso fuoco che avevano acquisito i tramonti per via delle particelle sospese nell’aria. I vulcani, da sempre, cambiano il clima e la storia. Ma provate a spiegarlo a Napoleone, sconfitto a Waterloo nel 1815 forse più a causa dall’eruzione del vulcano Tambora, in Indonesia, che non dal talento dei suoi avversari. Quell’anno l’inverno fu più pesante del solito: enormi quantità di fumi e polveri emessi dal vulcano appena esploso avevano oscurato la luce del Sole e reso più freddo il clima. Anche nel mese di giugno le temperature non salivano (neanche nei pressi di Bruxelles) e immensi nuvoloni - innescati dalla grande quantità di pulviscolo in circolo - si aggiravano per l’atmosfera raggiungendo località lontanissime dal centro di emissione. Napoleone aveva un punto di forza nella cavalleria leggera che - proprio in quel frangente - si trovò a essere, invece, irrimediabilmente appesantita dal terreno troppo fangoso dopo giorni e giorni di pioggia. Il generale Michel Ney - che faceva della velocità di esecuzione un vanto - arrivò in clamoroso ritardo all’attacco delle truppe di Wellington. Insomma un vulcano aiutò gli inglesi e i prussiani e chissà come sarebbero andate le cose su un pianeta tettonicamente «morto». E il 1816 è rimasto famoso come «l’anno senza estate». Così le ceneri islandesi ci rimettono al nostro posto di fronte allo spettacolo della Terra, e pure se ritarderanno qualche aereo, approfittiamone per riflettere e meditare.
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