sabato 3 aprile 2010

Padroni d'Italia




di Marco Damilano


Bossi incassa un grande successo elettorale. E può dettare l'agenda al governo. E Berlusconi è pronto a concedere un federalismo hard per ottenere il via libera al presidenzialismo


E ora la "famiglia trasversale" Pdl-Lega, per parafrasare la beffarda espressione usata da Umberto Bossi sul palco romano di San Giovanni abbracciando il suo partner Silvio Berlusconi, si prepara a celebrare degnamente nel 2011 i 150 anni dell'unità italiana. Con una rivoluzione istituzionale: federalismo hard, come desidera la Lega, non più quello dai tempi biblici dei regolamenti attuativi e delle bicameraline, ai limiti della secessione. E l'elezione diretta del capo dello Stato, il presidenzialismo senza contrappesi, per portare il Cavaliere al Quirinale ben prima della scadenza naturale del mandato di Giorgio Napolitano. La Terza Repubblica, da fondare sulle macerie del vecchio sistema politico. A furor di popolo, con tanto di firme nei gazebo e referendum per l'approvazione finale.


Fantapolitica pensare che tutto questo sia conseguenza di un semplice voto regionale? No, perché le elezioni del 28 e 29 marzo erano state interpretate dal Cavaliere come una scelta di campo, un'ordalia, un giudizio di Dio da chiedere al popolo sovrano. E ora il popolo ha parlato, consegnando alla Lega una vittoria senza precedenti che la consolida come il partito egemone del Nord Italia, il nuovo potere che promette di durare come e più della Dc nelle stesse zone che furono cassaforte di consensi per la Balena bianca. E concedendo al premier il via libera, i pieni poteri per realizzare il suo progetto di riforma costituzionale. Guai a chi si mette in mezzo: istituzioni di garanzia, controllori, stampa, magistratura. «L'opposizione moderata", come la chiamano i portavoce berlusconiani, il Pd e l'Udc, se vuole aggiungersi sarà benvenuta, altrimenti il Pdl e la Lega faranno da soli, poche storie.


Ci sono tre anni di tempo da qui alla fine della legislatura, senza altre consultazioni nazionali a intralciare i piani del Cavaliere: ora o mai più. E già che ci siamo, mentre si riscrive la Costituzione, nell'Agenda Berlusconi trovano posto i tanti conti lasciati in sospeso in attesa del voto regionale. La riforma della giustizia, con i pm da portare sotto il controllo dell'esecutivo. La legge sulle intercettazioni, con il divieto di pubblicazione delle telefonate che incastrano i colletti bianchi, magari anche quelli che erano di casa a Palazzo Chigi. Poi, dato che l'appetito vien mangiando, i pavidi vertici di viale Mazzini potrebbero finalmente prendere coraggio e provare a cacciare Michele Santoro dalla Rai, come reclama da tempo il loro editore di riferimento: è stato così sereno questo mese senza talk show, e così fruttuoso.


E ci sono altre cambiali da pagare. La legge sul testamento biologico, che sta molto a cuore alla Chiesa, è bloccata alla Camera dalla scorsa estate: bisognerà accelerarne l'approvazione, è il minimo che si possa fare per ringraziare la gerarchia ecclesiastica che la settimana prima del voto è scesa in campo per bloccare Emma Bonino nel Lazio. Un altolà che ha consolidato la scelta di una parte dell'elettorato cattolico vicino al centrosinistra di restare a casa la domenica degli ulivi e delle elezioni. E guai a chi proverà a mettersi in mezzo, a «remare contro", come ha scandito gelido Berlusconi la notte del voto. Pensa a Gianfranco Fini, naturalmente. L'unica voce del centrodestra che ha provato a bloccare la fusione con la Lega: "Il Pdl non può diventare la fotocopia del Carroccio", quante volte l'ha ripetuto il presidente della Camera? Il problema è che l'ex leader di An alla fine si è ritrovato senza modello originale. Quello che aveva immaginato con la candidatura di Renata Polverini nel Lazio in alleanza con l'Udc di Pier Ferdinando Casini si è dissolto il giorno che la lista del Pdl è stata esclusa a Roma e la sua pupilla è stata costretta a legarsi mani e piedi al Santo di Arcore, per chiedergli il miracolo. La grazia è arrivata: bastava stare in piazza del Popolo all'una di notte, al momento della vittoria, per capire chi ha vinto nel Lazio. Tassisti, centri sociali di destra, signore platinate, ultrà della curva, elettorato di An, il sindaco di Roma Gianni Alemanno uniti in un solo coro: "Silvio Silvio". Con un notabile locale che sintetizzava al telefono: "E ora Fini se ne deve anna' a affan...".


E ora il presidente della Camera si butterà sul presidenzialismo: da fare con i pesi e i contrappesi necessari, ma in fondo l'idea gli appartiene da sempre, per tradizione e cultura politica. E potrebbe rappresentare lo sbocco futuro della sua carriera. Mettersi di traverso, al contrario, sarebbe una mossa ad alto rischio: con Alemanno che si candida già a rappresentare nel Pdl la destra sociale rimasta orfana di leader. Eppure, a guardarlo da vicino, il risultato del Pdl è stato tutt'altro che trionfale nelle regioni del Nord: a dieci punti di distanza dalla Lega in Veneto (dove incassa anche la sconfitta di Brunetta), incalzato in Lombardia, costretto a cedere il Piemonte al leghista Roberto Cota. Con Bossi che commenta saracastico:"Ho chiamato Silvio per complimentarmi per la buona tenuta del Pdl rispetto allo tsunami Lega". In più, il Senatur prenota per sé la poltrona di sindaco di Milano: l'ingresso nel salotto buono, dell'alta finanza e dell'Expo 2015. Ma Berlusconi non ha nessuna passione per i risultati del Pdl. Non ragiona come un segretario di partito: quella è roba da Verdini e Bondi, l'intendenza.


A lui interessa il risultato finale: l'avrebbe ottenuto, forse, perfino nella Puglia di Nichi Vendola se il ras locale Raffaele Fitto non si fosse impuntato nel veto contro Adriana Poli Bortone. L'unica macchia, lavata con le dimissioni del ministro, in un risultato clamoroso in Campania e Calabria che conferma la supremazia dell'armata del Cavaliere al Sud. E per il premier il rapporto con la Lega è la stella polare. Provò a schiacciare il Senatur nel '94, quando Bossi fece cadere il suo primo governo e Berlusconi cercò di sfilargli le truppe. In quel momento nessuno avrebbe scommesso una lira sulla tenuta del Carroccio: la Lega sembrava una meteora, un movimento di protesta, un termometro buono a indicare la febbre del Nord, destinato a essere cannibalizzato da Forza Italia. Invece è rimasto in piedi. Il Cavaliere ha ritentato l'operazione nel 2004, quando dopo il malore di Bossi la Lega si ritrovò all'improvviso senza capo. Anche in quel caso, la classe dirigente padana, Roberto Maroni, Roberto Calderoli, Roberto Castelli e soprattutto l'emergente Giancarlo Giorgetti, fece quadrato per salvare l'autonomia della Lega.


Ora le parti si sono invertite: il potere della Lega promette di durare decenni, come i democristiani in Veneto o i comunisti e i loro eredi in Emilia. Mentre il Pdl senza Berlusconi è poca cosa: il trio Bondi-Verdini-La Russa, una federazione di potentati in rissa permanente, più il taciturno Tremonti. Insieme, però, rappresentano il bulldozer che intende spianare ciò che resta delle istituzioni della prima Repubblica, il delicato sistema stabilito nella Costituzione del '48. Una Carta che a Berlusconi e Bossi non è mai piaciuta. Secessione e presidenzialismo, le due cose si tengono. Per la Lega significa alludere all'ora X della disgregazione nazionale mentre si consolida la gestione dell'amministrazione, come faceva il Pci negli anni Cinquanta. Per Berlusconi vuol dire indicare la soluzione al problema che lui stesso ha provocato: presentarsi come l'unico garante dell'unità nazionale, il solo che può trattenere le genti del Nord, con un forte potere centrale, l'elezione diretta, un signore eletto dal popolo. Dell'Italia. E della Padania. Ora o mai più.



(31 marzo 2010)

1 commento:

LUIGI A. MORSELLO ha detto...

UNA ANALISI LUCIDA E SPIETATA CHE FA VENIRE I BRIVIDI, MENTRE NAPOLITANO STA A GUARDARE E IL PD SEMBRA UN ECTOPLASMA. SONO NATO NEL FASCIMO E MORIRO' NEL NUOVO FASCISMO. SPERO BENE DI NO! MA SONO ASSALITO DA FUNESTI PRESAGI.