martedì 11 maggio 2010

Così si regala l’anticasta a B.


Questa soluzione non paga sul piano della tattica né su quello dell’utilità e del gioco machiavellico. Ma soprattutto, non funziona su quello democratico

di Luca Telese

C’è un 40 per cento buono di italiani che – più o meno da quindici anni – fa questo sogno: svegliarsi una mattina e ritrovarsi a Palazzo Chigi un nuovo Comitato di Liberazione nazionale, una union sacrée democratica, un governo di salvezza nazionale che metta tutti insieme per cacciare “Il puzzone”, per far cadere Silvio Berlusconi e sostituirlo con qualsiasi cosa, pur di allontanarlo dalla stanza dei bottoni.

Bello (di sicuro) impossibile (forse). Ma anche sbagliato (soprattutto).

Le motivazioni per coltivare questa amena speranza, ovviamente, non mancano. Anche chi pensava malissimo dei dirigenti del centrodestra non immaginava che sette esponenti del governo sarebbero finiti contemporaneamente sotto inchiesta per reati gravi (o gravissimi). O che avremmo assistito al puerile balletto di “A mia insaputa” Claudio Scajola. Nessuno, nemmeno armato di grande fantasia, avrebbe mai ipotizzato che un sottosegretario fosse giudicato incandidabile (per i suoi rapporti con la camorra) dalla sua stessa maggioranza, o immaginato il diluvio delle leggi ad personam, liberticide o ammazza inchieste scomode che ci sono state regalate in questa porzione di legislatura.

Poi – per giunta – a far cadere in tentazione i sognatori, sono arrivate le due ciliegine sulla torta: la ribellione di Gianfranco Fini e il vaticinio di Pier Ferdinando Casini. Domenica, ospite di Lucia Annunziata, Casini ha rinfocolato la speranza dell’Italia del quaranta per cento: “Un governo tecnico di salute pubblica, primo o poi è inevitabile”.

Ora, tutte queste speranze e ragioni sono espresse con molta efficacia, qui a lato, da Paolo Flores d’Arcais. Se c’è “un’emergenza democratica” – ragiona Paolo in estrema sintesi – a brigante brigante e mezzo: qualsiasi cosa pur di ripristinare la legalità. Credo che questo suo articolo aprirà un grande dibattito, un dibattito necessario e utile. Ma confesso che leggendo le sue motivazioni ho detto – nella nostra riunione di redazione – che mi sento combattuto come l’omino di Altan, quello che soavemente confessa: “A volte ho dei pensieri che non condivido”.

Ecco: leggo, capisco, sono tentato di condividere, ma allo stesso tempo non ce la faccio.

In primo luogo perché li ho seguiti da cronista, tutti i governi tecnici di questo sgarrupatissimo ventennio di transizione italiana. Quello di Ciampi – oggi idolatrato da una nube di nostalgia retroattiva superiore ai suoi meriti – non lasciò leggi memorabili al Paese, se non altro perché non poteva prendere grandi decisioni: era un governo in cui la politica entrava di contrabbando, e in cui non si sapeva da chi provenisse il mandato né quale fosse. Quello di Dini, venne inaugurato drammaticamente dal “bacio del rospo”, dalle lacrime in aula di Marida Bolognesi (alcuni “eroi” di Rifondazione, fra cui Nichi Vendola ruppero con il loro partito per farlo nascere) e da un grido di battaglia contro i berluscones che nell’emiciclo di Montecitorio in bocca al suo premier suonava simpaticamente improbabile (“Adesso mi sono rotto il cazzo!”). Ricordo la fila di deputati leghisti nell’ufficetto di Bossi che all’epoca diceva cose godibilissime: “Basta con il mafioso di Arcore” e “A Silvio bisogna segare il balconcino da piccolo Duce”. Il bilancio si chiude con Umberto “il miglior alleato” di Berlusconi e Dini che ritorna “a casa”, come Lassie, nel centro-destra (a via della Conciliazione era quello appisolato vicino a Fini, mentre lui ululava). È stato bello, ci abbiamo sperato, ma non c’è nulla da fare. Il governo D’Alema – strano caso di auto-cannibalismo a sinistra ai danni di Prodi – riuscì a regalare la pallida esperienza “del D’Alema bis” con la caccia ai voti, il sottosegretario missino Misserville (simpaticissimo, ma costretto alle dimissioni in 24 ore per aver portato il busto del Duce nel primo esecutivo post comunista del dopoguerra) e una dimenticabile parentesi di calciomercato parlamentare, con il gruppo misto che cresceva ogni giorno come una metastasi. Ci siamo divertiti, è vero, a raccontarlo quel suq trasformista. In cui – come nell’ultimo Prodi – si andava a caccia di voti con il pallottoliere, finendo a regalare gli sgravi benzina in Trentino e Val d’Aosta per ottenere una fiducia dall’Svp o dell’Union Valdôtaine.

Adesso, per favore basta: non si può più. Io non so perché Casini – una vita per costruirsi fama da moderato – abbia scelto proprio la locuzione estrema della “salute pubblica”, che evoca Madame de Guillotine e il Terrore. Ma in ogni caso bisogna che i sognatori si rassegnino all’idea: non si esce dal berlusconismo con una scorciatoia o un golpe. Non c’è un intermezzo della salute pubblica che prepara un nuovo inizio.

Il berlusconismo (e il leghismo) hanno costruito in questo paese un blocco sociale vero, una solida coalizione di interessi. Hanno costruito una leadership, hanno ottenuto un mandato.

Pensare che i 20 “vietcong finiani” possano diventare il piede di porco con cui si scardina questa maggioranza (intanto bisogna vedere se loro sono d’accordo, e non sembra) è una trappola onirica. E poi Berlusconi si può battere, ma non si può rimuovere. Ricordo che per anni si parlava di come sarebbe scomparsa la Lega senza il carisma di Bossi: ebbene, nel 2004 Bossi fu colpito dall’ictus, la Lega rimase un anno senza padre, alle Europee il partito crebbe. Il governo tecnico non paga sul piano della tattica, quindi, nè su quello dell’utilità e del gioco machiavellico. Ma soprattutto, non funziona su quello democratico. Regalerebbe a Berlusconi una campagna elettorale anti-Casta. E regalerebbe ala sinistra la parte della Casta. Come se ce ne fosse bisogno.

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