sabato 29 maggio 2010

EASTWOOD, QUANDO L’ETÀ È SOLO UN GIOCO


di Federico Pontiggia

Ci fossero le Olimpiadi del cinema, il portabandiera della squadra americana non potrebbe che essere lui. Chi meglio del Texano dagli occhi di ghiaccio nato a San Francisco 80 anni fa per portare la bandiera dei padri, Flags of Our Fathers? Lo farebbe dall’alto dei suoi 187 cm, con la schiena dritta, la coscienza pulita, ma senza (troppa) misericordia.

E, forse, addosso si metterebbe il poncho della trilogia del dollaro di Sergio Leone, che la leggenda vuole non abbia mai lavato. Il giro dell’anello sarebbe tutto per lui, ma non aspettatevi istrionismi alla De Niro e occhiate mordaci alla Nicholson buttate in tribuna, no: in pista metterebbe l’understatement di Gary Cooper, quell’incedere un po’ così, schivo e consapevole insieme, dell’Uomo senza nome.

Ma aspettatevi, questi sì, applausi a furor di popolo: pescando da Hollywood, chi mettere se non lui di fianco a Washington, Jefferson, Roosevelt e Lincoln sul monte Rushmore?

Per lungo tempo fuori moda, poi Dirty Harry addirittura tacciato di propaganda filo-nixoniana, solo con gli anni ’90 viene assurto a paradigma stesso della classicità: sconfessato l’ostracismo, la Pastorale americana degli ultimi 150 anni oggi confessa di avere un solo autore ad averla cantata sul grande schermo, Clint Eastwood.

Dalla frontiera mitica del Lo straniero senza nome (1973) alla Secessione de Il texano dagli occhi di ghiaccio (1976), dal country di Honkytonk Man (1983) al jazz di Bird (1988), passando per il reaganismo armato di Firefox volpe di fuoco del 1982 e Un mondo perfetto, ma senza Kennedy, del 1993, dal Potere assoluto dell’immagine (1997) al precario garantismo di Fino a prova contraria (1999), fino al dittico “noi e loro” sulla Seconda Guerra Mondiale di Flags of Our Fathers e Lettere da Iwo Jima (2006): dietro la macchina da presa, lui, un uomo solo al comando. Quella solitudine che gli viene dalla gavetta d’attore, sbarcato a Roma nell’aprile del ’64 con stivali, cappellaccio e alcun timore reverenziale in valigia: con Sergio Leone si scontra, e non per un pugno di dollari, ma per qualche parola di troppo – giudicava - nei dialoghi. Ma sono scazzi senza conseguenze: “Mi piace perché è un attore che ha solo due espressioni: una con il cappello e una senza”, sentenziò Leone, ma ce n’era una terza: quella del successo. Per un pugno di dollari (’64, pagato 15 mila dollari), Per qualche dollaro in più (’65, e lo stipendio cresce a 50 mila) e Il buono, il brutto e il cattivo (’66, con 250 mila dollari, il 10% degli incassi e… una Ferrari nuova di pacca) fanno la fortuna dell’Uomo senza nome, che tale al casting non è più: abbandonati ancora fumanti gli spaghetti-western, Clint torna da propheta in patria, indossando una Cravatta di cuoio per Don Siegel (1969) e trovandosi, tra thriller e città, con il portafogli gonfio e John Wayne e Paul Newman per rivali al botteghino. Fonda la sua casa di produzione, la Malpaso, ed esordisce alla regia con Brivido nella notte (’71), ma la pistola non la rinfodera: Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo! è nel ’71 un successo planetario, con tanto di citazione pubblica di JFK, e il primo capitolo della serie di Dirty Harry, conclusa 12 anni più tardi con Coraggio… fatti ammazzare.

E – curioso che tra tante epiche cavalcate fordiane, scelga il non western Com’era verde la mia valle (’41) quale suo film preferito - nemmeno dimentica di fare i conti, da cavaliere solitario, con il suo primo amore: Gli spietati (’92) stacca il biglietto d’ingresso nella Hollywood che conta, conquista il primo Oscar da miglior regista (il secondo con Million Dollar Baby nel 2005) e appende al chiodo il cinturone, con l’ineluttabilità della morte a seppellire pistoleri fallibili, giustizieri ingiusti e puttane aride. In mezzo, la vita.

“Se vuoi una garanzia, compra un tostapane”, sostiene ne La recluta (1990), e la considerazione vale pure per le compagne, perché se “non credo di essere mai stato attratto da una donna che non ami la musica” Clint la colonna sonora giusta l’ha sempre trovata.

A mancargli è il basso continuo: sette figli - l’ultimo, Morgan, nato il 12 dicembre ’96 dalla seconda moglie, Dina Ruiz, classe 1965 - da cinque donne diverse, perché “la vita la vivo come dico io, o non la vivo affatto”.

Prendere o lasciare, e vale pure sullo schermo: spesso i suoi sono personaggi lacerati, a cui viene offerta un’ultima chance. Da Unforgiven, passando per Million Dollar Baby, fino a Gran Torino, insieme alla redenzione di Frankie Dunn e Walt Kowalski si consuma la redenzione di Clint, l’ex cowboy reazionario, il Dirty Harry dal grilletto giustizialista, se non fascista: “Mi interessano le persone in grado di cambiare, qualsiasi sia il cammino che debbano intraprendere. Quello di Kowalski (Gran Torino, 2008) è verso la tolleranza”, il suo verso una rivisitazione del sogno americano, che fa autocritica ma non concessioni. Da Mystic River (2003) a Changeling (2008), Clint raccoglie i denti che mancano al sorriso.

“Io mi limito a prendere i migliori artisti e tecnici, li metto in grado di dare il meglio di sé e mi prendo il merito di tutto”, ha confessato sul set di Invictus.

Non scherzava, forse, ma sicuramente ometteva qualcosa: la sua dedizione totale al cinema.

Per cui non c’è da stupirsi se, ai tradizionali festeggiamenti, preferisca il lavoro. Il 31 maggio Clint Eastwood compie 80 anni, e sulla (non) torta brillano due nuovi film. Il sovrannaturale Hereafter, con Matt Damon e un piede in Mostra (di Venezia), e Hoover, biopic sullo storico capo dell’FBI, già in pre-produzione con Leo DiCaprio. Auguri Mr. Eastwood, e lunga vita!

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