sabato 1 maggio 2010

IL GRAN CONSIGLIO DEI PRESCRITTI


B. ha già salvato Scajola: c’è la ex Cirielli a smontare i rischi giudiziari. E la macchina-scandali va a gonfie vele

di Peter Gomez

Questa volta ha ragione Silvio Berlusconi. Dal punto di vista giudiziario il caso di Claudio Scajola, il ministro ex galeotto – 70 giorni di carcere nel 1983 per tentata concussione prima di essere assolto molti anni dopo – finirà in “una bolla di sapone”. I termini di prescrizione, abbreviati proprio dal premier nel 2005 con la legge ex Cirielli, rendono di fatto impossibile un dibattimento contro il responsabile del dicastero dello Sviluppo economico.

Nel 2004 Scajola ha ricevuto 900.000 euro in assegni circolari, provenienti dagli uomini della “cricca”. Titoli con cui ha acquistato in parte in nero la sua casa romana con vista sul Colosseo. Ma dall’epoca dei fatti sono passati quasi 6 anni. Così, qualunque reato gli dovesse essere contestato (il ministro per ora non risulta indagato) un eventuale processo non riuscirà mai ad approdare in Cassazione prima che scatti la tagliola del tempo.

Dal punto di vista politico, invece, è tutta un’altra storia. Anche i bambini, e persino i telespettatori del Tg1, hanno capito benissimo che se la vicenda degli assegni è vera, Scajola è come minimo un grande evasore fiscale e come massimo un ladro. E l’insistenza con cui il responsabile del dicastero dello Sviluppo economico continua a non voler spiegare agli elettori quanto è accaduto, sembra non lasciare spazio a ipotesi diverse. Un bel problema visto che Scajola gestisce un ministero dal ricco portafoglio (5 miliardi di euro), in teoria destinato a far riprendere, anche tramite incentivi e sovvenzioni, le imprese dalla crisi. Insomma mentre l’esecutivo chiede agli italiani di stringere la cinghia e Giulio Tremonti prosegue, con qualche successo, la sua lotta contro chi non paga le tasse, il caso Scajola diventa di giorno in giorno più imbarazzante.

Certo, l’intero Consiglio dei ministri fa quadrato intorno a lui. Il Pdl, con gli scontati distinguo dei finiani, non si smuove di un millimetro. Il ministro della Giustizia, Angelino Alfano, anzi se la prende con i magistrati e la “pubblicazione di atti riservati”, come se un politico al quale viene chiesto se davvero ha rubato, invece che chiarire l’eventuale equivoco, potesse davvero rispondere, come fa Scajola: “Non parlo perché è un segreto”. In realtà la linea Maginot su cui è arroccato il centrodestra, ha una ragione ben precisa. L’indagine, prima fiorentina e poi perugina sull’ex presidente del consiglio superiore delle opere pubbliche Angelo Balducci e l’imprenditore Diego Anemone (quello della provvista da cui sono indirettamente stati tratti gli 80 assegni finiti nelle mani di Scajola), dimostra già ora quanto sia diffuso il malaffare nei vertici delle istituzioni. Specie quando si parla di appalti pubblici. E a raccontarlo meglio, paradossalmente, non sono né le intercettazioni (di cui comunque l’esecutivo vuole vietare l’utilizzazione e la pubblicazione), né le ordinanze di custodia cautelare. In un paese come l’Italia dove la corruzione, secondo i calcoli della Banca mondiale e della Corte dei conti, costa ai contribuenti tra i 50 e i 60 miliardi di euro l’anno, lo dicono invece proprio gli uomini di governo. Nelle loro interviste.

Lo ha fatto, per esempio, il ministro delle Infrastrutture Altero Matteoli, un ex finiano e neo-berlusconiano che anche grazie alla legge sul legittimo impedimento – esteso all’intero esecutivo – ha oggi allontanato il rischio di veder riprendere in Toscana il processo per favoreggiamento a cui è da anni sottoposto (secondo l’accusa quando era responsabile dell’Ambiente aveva avvertito un indagato di un’inchiesta per lottizzazione abusiva e mazzette in corso all’isola d’Elba contro di lui e altre persone).

Quando due mesi fa a Firenze erano scattate le prime manette ai polsi degli uomini della cricca dagli ascolti telefonici era emerso che Matteoli, su gentile richiesta del coordinatore del Pdl, Denis Verdini (sotto indagine per corruzione), nel 2009 aveva promosso a provveditore delle opere pubbliche per l’Italia centrale un architetto, Fabio De Santis, poi arrestato. De Santis non aveva i titoli per ricoprire quell’incarico. A Porta Pia, sede del ministero, i suoi colleghi protestavano. Ma la nomina era troppo importante (doveva decidere su un appalto da 260 milioni di euro che interessava a un imprenditore amico e forse socio occulto di Verdini) per badare a certi particolari. E così, una volta scoperto, Matteoli, lo stesso politico che nel ‘93 tuonava contro l’allora ministro Francesco De Lorenzo dicendo “non è concepibile che la raccomandazione diventi un sistema quasi consacrato”, affronta Fiorenza Sarzanini del Corriere della Sera e afferma serafico: “Quando devo fare le nomine, le segnalazioni arrivano. Non capisco cosa c’è di strano se uno dei coordinatori del mio partito mi indica una persona. Se qualcuno si scandalizza è davvero singolare”.

Matteoli per tutto questo non è indagato, così come non sono sotto inchiesta il suo predecessore Piero Lunardi, né Marcello Dell’Utri, né gli altri parlamentari del Pdl (almeno tre) che a vario titolo ruotavano intorno al sistema di controllo degli appalti, messo in piedi da Balducci e compagni. Tutti però appaiono impegnati a far ottenere lavori a imprese in qualche modo a loro collegate. Alla faccia dei principi di libera concorrenza del mercato. Unica eccezione Lunardi, che invece si è limitato a farsi ristrutturare (a pagamento, dice) una casa dalle imprese di Anemone e, per sua stessa ammissione, a fare da mediatore in una compravendita di terreni sui quali l’imprenditore ha costruito il suo circolo Salaria sport Village. Sì, proprio il club dove il sottosegretario Guido Bertolaso, ex uomo immagine del governo tuttora sotto inchiesta, si sottoponeva a massaggi, ufficialmente solo per curare il mal di schiena.

Ora se questo è il quadro – ma c’è da giurarlo, le cose nelle prossime settimane non potranno che peggiorare – diventa evidente che il Paese, una classe dirigente così, non se la può più permettere. I conti dello Stato sono in profondo rosso. Lo spettro della crisi greca bussa alle porte. Quella che un tempo veniva chiamata “la questione morale”, si sta trasformando, di giorno in giorno, in una semplice questione economica.

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