

Dio benedica l’autocertificazione. In un Paese come il nostro dove il Censis è arrivato a contare in un anno 233 scadenze fiscali e amministrative e la macchina burocratica si è spinta a chiedere 71 adempimenti per l’apertura d’una trattoria o 23 firme per piantare una bricola in Laguna, il grimaldello della dichiarazione firmata che sostituisce un mucchio di carte può essere davvero indispensabile. Ed è naturale che il governo, nel tentativo di dare ossigeno all’economia, pensi di dare ancora più spazio a questo strumento per incentivare la nascita di nuove imprese.
Sbaglierebbe l’opposizione a mettersi di traverso, facendo della rigidità dei paletti burocratici (che a volte non garantiscono affatto il rispetto delle regole ma solo la sopraffazione ottusa dei timbri) un fortilizio da difendere come l’ultima ridotta. E così, reso omaggio alla Costituzione, non ha forse senso erigere barricate intorno alla sacralità intangibile di certi passaggi dell’art. 41, letti a torto o a ragione solo per giustificare spesso lacci e lacciuoli.
Detto questo, ogni grimaldello può essere usato bene oppure male. Può salvare la vita a chi è intrappolato o consentire al ladro di scardinare una saracinesca. E allargare ulteriormente l’autocertificazione senza introdurre dei contrappesi potrebbe essere, in un Paese come il nostro, devastante. Le cronache di questi anni fanno rizzare i capelli. Seicentosei studenti della Sapienza smascherati (su un campione di soli 4000) perché si dichiaravano poveri rubando le borse di studio ai poveri veri. Settantatré palazzine abusive a Casalnuovo vendute dal notaio in base a un’autocertificazione falsa secondo cui tutto era a posto per il condono. Cento per cento dei posti in graduatoria nelle «materne» dell’Agrigentino assegnati grazie alla legge 104 e ai documenti di maestre che giuravano di assistere parenti invalidi.
E poi parlamentari come il senatore Nicola Di Girolamo eletti grazie a una falsa dichiarazione di residenza all’estero. E migliaia di «buoni-bebè» (solo a Voghera erano truffaldine 354 pratiche su 430) distribuiti a immigrati «finti italiani » che per legge, giusta o sbagliata che fosse, non ne avevano diritto. E decine di migliaia di finti nullatenenti dalla Val d’Aosta alla Calabria esenti dal ticket sanitario. E 321 «comunali» napoletani (seguiti da altre decine e decine a Taranto) denunciati perché si erano aumentati lo stipendio autocertificando di avere a carico zie, nonni, cugini e consuocere. E 96 tassisti romani con licenza nonostante la fedina non candida. Per non dire dell’impennata (da 4 a 70 milioni di euro) dei soldi spesi per il gratuito patrocinio a chi dichiara meno di 9.296 euro, compresi boss mafiosi e un immobiliarista che ha avuto dallo Stato l’avvocato gratis 152 volte. O delle centinaia di militari processati perché assunti (e c’è chi passò poi ai carabinieri!) a dispetto dei precedenti penali. Condannati a pene lievi e quasi sempre rimasti in servizio.
Ben vengano dunque le nuove norme. Ma guai se non venissero abbinate a controlli più seri e a una mano più ferma contro gli imbroglioni. Chi dichiara il falso, oggi, rischia pochissimo: da 20 giorni a un massimo di due anni con la condizionale, ma male che vada in cinque anni cade tutto in prescrizione. E i «furbetti del certificativo », purtroppo, lo sanno.
Gian Antonio Stella
20 giugno 2010

Nessun commento:
Posta un commento