giovedì 24 giugno 2010

Chi vuole stravincere


di Furio Colombo

Sergio Marchionne, l’uomo in maglione, ha molta fretta e poca memoria. Eppure la memoria serve nelle posizioni di responsabilità che toccano e cambiano la vita degli altri. Negare la memoria, a volte, è come lasciar cadere sul terreno già sconvolto delle relazioni tra cittadini troppo soli e poteri troppo grandi, i semi velenosi di conflitto che si espande in fretta. Nell’azienda in cui ora lavora non lo precedono esempi o storie di buonismo. Ma certamente dovrebbe ricordare storie di prudenza. Storie in cui il potere, in caso di sconfitta, non minacciava di andarsene e in caso di vittoria stava attento a non stravincere.

Intorno a quella fabbrica c’erano sindacati che non venivano spaccati e derisi (ricordate Agnelli in televisione mentre discute, annota, trascrive numeri e li passa a Luciano Lama, con lo stesso rispetto con cui avrebbe discusso con un banchiere) e c’erano partiti che non si ritraevano dalla responsabilità di difendere il lavoro, che non è sempre tutt’uno con l’impresa. E – da solo – non è mai il più forte. L’Ad senza memoria della Fiat sembra non sapere, nel suo giovane slancio a prevalere sempre e comunque, che un giorno non così lontano (gli anni Cinquanta, Sessanta), l’Italia ha avuto imprenditori conosciuti e rispettati nel mondo come Adriano Olivetti. Eppure qualcuno gli avrà detto che con lui alla testa di una impresa, in cui non c’è mai stato uno sciopero, la perfezione del prodotto e il rispetto del lavoro erano le due facce di un successo straordinario. Eppure qualcuno avrà raccontato a Marchionne che Adriano Olivetti è stato il solo, prima di lui, a prelevare e salvare un’azienda americana (la Underwood, storica rivale, nel 1959) meritando attenzione e rispetto come ne ha meritata la vicenda Chrysler, pur in tempi tanto diversi e con un’Italia tanto più piccola.

Oggi, all’improvviso, a Pomigliano, la sequenza è questa: uno, favorire le spaccature del sindacato (seguendo una non nobile strategia di governo); due, offrire una soluzione importante (700 milioni di investimento) ma a condizione che siano accettate tutte le sue idee guida: si deve investire non con chi è bravo (bravi gli operai di Pomigliano lo sono, riconosciuti da tutto il mondo dell’automobile) ma con chi è buono, cioè sottomesso; terzo, far sapere (con durezza che sa di ricatto) che lui esige (purtroppo è il verbo giusto) di stravincere. E aggiunge, con inspiegabile cattivo gusto, un giudizio malevolo sugli operai che guardano le partite, come segno di pericolosa devianza sociale. Infine fa capire – mentre scriviamo – che la Fiat farà lavorare solo coloro che hanno firmato il suo patto. Se è vero, è una dichiarazione di conflitto con tutto il mondo del lavoro, inclusi quelli che col voto hanno accettato il patto, inclusi gli operai polacchi che si sentono pedine di un gioco che non conoscono. Possibile, Marchionne, cominciare così bene, e finire così male?

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