domenica 27 giugno 2010

Il ruolo del Quirinale e il giallo delle deleghe


(f. de b.) La linea del Quirinale ieri mattina era chiara. E l’ultimatum netto. O Aldo Brancher si presenta, senza ulteriori indugi al giudice di Milano, oppure si dimette. E ieri sera il neoministro ha scelto di rinunciare ad avvalersi dello scudo ministeriale con una mossa goffa, ma obbligata dopo quella, impropria e avventata di giovedì, quando i suoi avvocati si erano affrettati ad avanzare la richiesta di legittimo impedimento al tribunale del capoluogo lombardo dove si celebra il processo che lo vede accusato di appropriazione indebita e ricettazione. La prossima udienza è fissata già per il 5 luglio. Per la presidenza della Repubblica, che venerdì sera aveva contrastato, con una nota, definita irrituale da Palazzo Chigi, il ricorso al legittimo impedimento (legge 51 del 7 aprile scorso), il ministro è senza portafoglio. Dunque, non vi è alcun dicastero da organizzare.

Brancher non poteva dire di essere pieno di cose da fare quando non si sa esattamente che cosa debba fare. Ed è questa la nuova fonte di irritazione di Napolitano che la ritirata di Brancher non placa. Ieri mattina, Napolitano non ha trovato traccia, sulla Gazzetta Ufficiale, del provvedimento della presidenza del Consiglio sull’attribuzione delle deleghe. Nonostante la rinuncia al legittimo impedimento, il mistero sul ministro «che non si sa che fa» continua. E la tensione fra Quirinale e palazzo Chigi rimane alta. Il presidente sta trascorrendo il primo fine settimana d’estate nella tenuta di Castelporziano. L’umore non è dei migliori. Nelle sue conversazioni private, oscilla nel definire la vicenda Brancher: una pagliacciata o un gioco delle tre carte. L’espressione partenopea è ancora più colorita. Napolitano ha particolarmente apprezzato il commento di Michele Ainis apparso sulla Stampa di ieri, specialmente là dove il costituzionalista spiega che il legittimo impedimento non è mai assoluto e l’attività ministeriale è disciplinata da una norma, non dai desideri dell’interessato. Per cui si può immaginare come sia stata accolta dal Capo dello Stato la reazione di Brancher alla nota del Quirinale di venerdì sera («Si basa su presupposti sbagliati»). Malissimo. Per non dire di più.

La storia della nomina repentina di Brancher vale la pena di essere raccontata così com’è stata vissuta nelle stanze della presidenza della Repubblica. Due settimane fa, Napolitano riceve una telefonata del sottosegretario alla presidenza del Consiglio Gianni Letta che è ormai il suo interlocutore naturale, e molto apprezzato. Letta gli annuncia l’intenzione del governo di nominare un nuovo ministro. Allo Sviluppo economico, dicastero senza titolare (l’interim è del premier) ormai da tre mesi dopo le dimissioni di Scajola? No, al federalismo. Il presidente rimane sorpreso e chiama, nelle ore successive, Berlusconi. La telefonata non è cordiale, non è la prima volta. Il presidente del Consiglio spiega che la scelta è tutta di natura politica, la Lega preme per riavere il ministero dell’Agricoltura, lasciato libero da Zaia, e chiede lo spostamento di Galan allo Sviluppo economico. Il premier parla delle difficoltà nei rapporti con l’alleato padano e sostiene, indubbiamente con buone ragioni politiche, che il Pdl non può lasciare nel Nord le questioni agricole al monopolio leghista; gli uomini di Bossi poi controllano tutti gli assessorati regionali. Convincente, però... Scusi, presidente, ma Brancher non è del Pdl? Risposta di Berlusconi: sì, però è l’uomo di collegamento con la Lega, molto vicino a Tremonti e Calderoli. D’accordo, ma le deleghe quali sono? Non si preoccupi, gliele mando subito.

Al Quirinale arriva un testo che il presidente della Repubblica, nell’esaminarlo con i suoi collaboratori, definisce né più né meno un pastrocchio. Nonostante tutte le riserve, il nuovo ministro per l’Attuazione del federalismo fiscale giura l’indomani, siamo a venerdì 18 giugno, nelle mani del capo dello Stato che nota un’altra curiosa anomalia: la presenza alla cerimonia degli stessi Tremonti e Calderoli. Napolitano non esita a definirli, scherzando ma non troppo, «i padrini dello sposo». Chiede a entrambi del testo «pastrocchio» e ne ricava quasi l’impressione che nessuno dei due l’abbia letto. Si informa sui costi. Tremonti parla di ministro «low cost». Battuta efficace. Tutto finito? Per nulla. I malumori, anche all’interno dello stesso governo e della maggioranza, dai finiani agli stessi esponenti della Lega, crescono con il passare delle ore finché, dal prato umido di Pontida, la domenica successiva, Bossi se ne esce con una dichiarazione ormai famosa. L’unico ministro del federalismo è lui. Macché Brancher!

E il Quirinale assiste, fra lo sconcerto e l’irritazione, al cambiamento in corsa delle attribuzioni del nuovo ministro senza portafoglio, ma più ricco di deleghe presunte che vi sia mai stato: dall’attuazione del federalismo fiscale e istituzionale al decentramento e la sussidiarietà. E non si sa ancora, perché il provvedimento del presidente del Consiglio dei ministri sulle deleghe ministeriali, che non richiede controfirma del Capo dello Stato, non è ancora apparso sulla Gazzetta Ufficiale. Giovedì mattina, Brancher annuncia che si avvarrà della legge sul legittimo impedimento, come ormai tutti avevano capito. Sentendosi un po’ preso in giro (come dirà anche il pm di Milano), Napolitano alza il telefono e chiama Letta. La telefonata, con quest’ultimo sulla difensiva, non è delle più piacevoli. Poi il presidente prende carta e penna e scrive la sua nota contraria all’uso da parte di Brancher della legge sul legittimo impedimento. Ieri la rinuncia, ma il caso del ministro low cost (come dice Tremonti o law, nel senso di legge, cost) è tutt’altro che chiuso. Che spettacolo amaro...

(f. de b.)
27 giugno 2010

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