martedì 22 giugno 2010

LUIGI MORSELLO - UN DIRETTORE CONTROCORRENTE

Il vecchio carcere, sullo sfondo, oggi abbandonato

Luigi Morsello


di Giulia Cananzi

Ci sono due modi per lavorare in carcere: limitarsi alla custodia o scommettere davvero sul riscatto delle persone detenute. Storia di un direttore eccezionale che ha sempre scelto la seconda via, pagando un prezzo altissimo.

«Fin dall’inizio ero stato avvisato: “Luigi, sei vuoi fare carriera non dare fastidio”. Ma come fai a “non dare fastidio” se fai sul serio il direttore di un carcere»? Ironia e indignazione, sono le cifre umane e professionali di Luigi Morsello, classe ‘38, originario di Avigliano (PZ) direttore di 7 carceri, in missione in altre 22, in pensione dal 2005. Non c’è tipo di istituto di pena che lui non abbia conosciuto di persona dalla casa circondariale a quella di reclusione, dal carcere aperto a quello di massima sicurezza. Tante le gioie e i dolori professionali: dalla soddisfazione di aver recuperato persone detenute considerate senza speranza, allo smarrimento di fronte ad accuse infamanti, che lo hanno portato alla depressione. Sullo sfondo quarant’anni di storia del nostro Paese: dalle stragi agli anni di piombo, dalle esecuzioni mafiose del generale Dalla Chiesa e dei magistrati Falcone e Borsellino a Tangentopoli. Una storia che investe e cambia anche il carcere, spingendo da un lato il suo rinnovamento ma, dall’altro, la progressiva deriva verso il sovraffollamento e il malessere di oggi.

Un’esperienza e una storia che Luigi Morsello ha voluto consegnare a un libro, La mia vita dentro ed. Infinito, «il primo – ci tiene a precisare – mai scritto da un direttore di carceri, perché anche questo per me fa parte del mettersi in gioco, del “dare fastidio”». Il libro non è sempre di facile lettura per la quantità dei nomi e delle situazioni da interconnettere, ma ha il pregio di darci uno spaccato inedito del carcere, un punto di vista da cui guardare anche la realtà «fuori».

Morsello conosce l’ambiente carcerario fin da piccolo: suo padre, originario di Napoli, era agente di custodia nel carcere minorile di Eboli (SA). Naturale per lui, dopo la laurea, nel 1964 partecipare al primo concorso pubblico per la direzione carceraria «lo vinsi e fu anche l’ultimo concorso che feci».

La prima sede è Firenze nel 1967, all’indomani della piena dell’Arno. «Il mio primo compito fu quello di restaurare le strutture danneggiate dall’alluvione». Ma l’esperienza che segna la sua vita è la direzione del carcere di San Gimignano, dove rimane dal 1969 al 1981. Il primo impatto è insiemedi bellezza e desolazione: il carcere è un antico convento in pieno centro storico che versa in pessime condizioni. Strutturali ed umane: i detenuti possono vedere la televisione solo due volte alla settimana. Il telegiornale è proibito. Ma ciò che più sconvolge è il buio. Le luci sono fioche, si va a letto come le galline. E si evade facilmente. La mano del nuovo direttore si nota subito: «Autorizzai i detenuti a guardare la televisione tutti i giorni, telegiornali compresi. Poi misi luci dappertutto e il carcere divenne visibile anche a distanza, come un alber

o di Natale». Non solo, a svolgere i lavori di manutenzione sono i detenuti stessi: «Ho costituito una squadra con le persone che in libertà facevano i muratori. Erano bravissimi. A volte si lavorava anche fuori dal carcere e non è mai successo niente». Il lavoro ai detenuti diventa un punto d’onore del nuovo direttore: «Sono riuscito con molte difficoltà ad aprire un laboratorio di falegnameria e un altro di sartoria: l’80 per cento dei detenuti di San Gimignano lavorava».

Nessuna di queste conquiste è scontata. Nei primi anni ’70 non c’era ancora il nuovo Ordinamento carcerario (1975) che introduceva il «trattamento rieducativo» del detenuto e la centralità del lavoro nel processo di rieducazione. Morsello precede queste innovazioni, riuscendo a creare un clima di fiducia e stima con molti detenuti. Uno di questi è Guerrino Costi, uomo anziano, bravissimo muratore, in carcere per l’uccisione di due persone nel 1955. «Gli avevo affidato alcuni lavoretti nel mio alloggio – racconta Morsello –. Mia moglie era gentile con lui ed era appena nata mia figlia Francesca. Notavo che lui guardava la bimba con occhi dolcissimi. Un giorno d’istinto presi la piccola e gliela porsi. Mi guardò con sguardo incredulo, poi la prese con delicatezza e grande emozione. Credo che per la prima volta si sentisse nonno. Lo aiutai a ottenere la grazia. Quando uscì dal carcere, gli regalai una cravatta; mi accorsi che non sapeva fare il nodo e glielo feci io. Lo accompagnai fuori per un tratto, poi lo lasciai da solo, ad assaporare la sua libertà». Poco dopo Costi scrive una lettera alla moglie di Morsello: «La sua famiglia mi è stata di conforto per tanti anni…non si può dimenticare [coloro che] hanno saputo comprendermi e darmi fiducia».

Ma la fiducia è rischio, assunzione di responsabilità, discernimento unito a umanità, una scelta che non tutti fanno: «Chi lavora in prigione ha due possibilità: o diventa custode con tutta la crudezza che ciò significa oppure cerca di recuperare le persone che gli sono affidate. Io ho sempre scelto la seconda via».

Tante soddisfazioni ma anche tante difficoltà. Con gli anni di piombo iniziano infatti le rivolte nelle carceri di tutta Italia per ottenere l’approvazione della legge penitenziaria e i permessi premio. Le proteste serviranno a metà «il nuovo ordinamento del 1975 non contemplava i permessi premio e bisognerà attenderli fino alla “Legge Gozzini” del 1986». Il terrorismo accelera il

processo di rinnovamento delle carceri: se da un lato la pena viene umanizzata dall’altro esistono reati nuovi e detenuti complessi da gestire. Nascono le carceri speciali per l’impegno del Generale Dalla Chiesa. Ma il clima nei penitenziari è ormai elettrico: aumentano i casi di terroristi che assaltano le carceri per liberare i compagni e aumentano i servitori dello Stato uccisi e gambizzati. Tutto è sospetto, indefinitamente minaccioso «eravamo diventati paranoici», confessa Morsello. «In questo stato di continuo stress: l’uccisione di Aldo Moro ci gettò nello sgomento e l’accorato appello alla liberazione di Paolo VI, sembrò a noi uomini di Stato un urlo nel deserto della politica». Intanto il

direttore colleziona una lunga serie di missioni temporanee in altre carceri: Milano, Siena, Lucca, Arezzo, Volterra, Pistoia e Gorgona Isola (LI).

«Ciò che notavo in tutte era un progressivo scadimento della preparazione del personale di custodia. La contestazione degli anni ’60 e ’70 contro tutte le strutture chiuse, carcere compreso, aveva reso meno allettante lavorare per il sistema carcerario. I vecchi se ne erano andati in tutta fretta mentre i nuovi erano pochi e senza maestri». Un preludio della futura crisi.

Ma proprio San Gimignano serba a Morsello, l’ultima terribile sorpresa. Il 25 gennaio del 1981 Gianni Guido, uno dei condannati del Massacro del Circeo (atroce delitto che coinvolse due ragazze), evade da San Gimignano a piedi e ha la fortuna di trovare un passaggio da un automobilista ignaro. «Una leggerezza di un’agente di custodia, non c’entravo nulla. Eppure non so se per eccesso di zelo o per ingenuità dissi che, come direttore, me ne assumevo la responsabilità. Con mio sconcerto mi accusarono di procurata evasione, perquisirono la mia casa e il mio ufficio. Un accanimento strano. D’improvviso non ero più nulla, il mio mondo si era rovesciato, non lo riconoscevo e non mi riconoscevo più». Solo dopo tanti anni Morsello azzarda un motivo: «C’era in corso un’inchiesta sulla P2. Credo che occorresse un capro espiatorio per sviare l’attenzione dell’opinione pubblica».

L’inchiesta ha l’effetto di spostarlo in un altro carcere, quello di Lonate Pozzolo, la Bellaria, vicino a Milano, una casa di reclusione anomala, nata per decongestionare San Vittore mandandovi i detenuti in scadenza di pena. Il carcere non ha né mura di cinta né sbarre alle finestre e intorno c’è un vasto terreno agricolo per lo più improduttivo: «Ma come, mi dissi, mi accusano di procurata evasione e poi mi danno la direzione di un carcere da cui possono evadere tutti»? L’accumularsi degli stress lo prostrano profondamente: «Piombai in una depressione cupa. Ero devastato e nello stesso tempo, per quanto gravi fossero i miei problemi, non capivo la mia reazione». Seguono nove mesi di consulti e tentativi di cure, poi la depressione se ne va improvvisamente.

Dopo una parentesi nel carcere di Alessandria, il ritorno a Lonate Pozzolo si rivela un’esperienza ricca e innovativa. Durante gli anni di Morsello la struttura ospita soprattutto persone tossicodipendenti e ammalate di aids. Il direttore riesce a migliorare il clima umano ma soprattutto a trasformare il carcere in una grande azienda agricola, produttiva e ben organizzata da cui non evade più nessuno. Un’esperienza unica in Italia che la politica cancella di lì a pochi anni: «Vendettero il nostro terreno, ci promisero un nuovo carcere che non arrivò mai: oggi su quei campi ci sono le rampe dell’aeroporto Malpensa». Nell’incuria finirono ben presto anche i laboratori di falegnameria e sartoria di San Gimignano. «Quante possibilità sprecate».

Difficile seguire tutti gli spostamenti della carriera di Morsello, ma uno a un certo punto ha un’importanza particolare: nel 1992 gli assegnano il compito di avviare il nuovo carcere di Pavia. Uno stress enorme a cui si aggiunge un grande dolore: l’uccisione dei giudici Falcone e Borsellino. «Lo Stato abbandonava i suoi uomini migliori».

Una crisi depressiva gravissima ha il sopravvento: «Il 25 settembre 1992, mi sparai un colpo al cuore. Mi salvarono per miracolo. Ero ammalato, lo scoprii anni più tardi, della sindrome bipolare. Un semplice farmaco avrebbe potuto evitare tutto questo. Ci ho messo molto tempo a elaborare il dolore, ho subito per questo altre ingiustizie ed emarginazioni, ma oggi mi sento un miracolato, grato alla vita».

In piedi anche questa volta, Morsello lavora altri 13 anni in altre 6 strutture con il suo solito stile arricchito da «un terzo occhio». «La depressione ha acuito la mia capacità d’introspezione, sono riuscito ad aiutare molte persone sia tra i detenuti che tra il personale di custodia».

Ora dall’alto dei suoi 40 anni di lavoro, Morsello guarda al sistema carcerario con più distacco e spirito critico: «È la cenerentola della politica, tutti la cercano quando ne hanno bisogno salvo lasciarla naufragare quando l’attenzione dell’opinione pubblica viene meno. In carcere oggi ci sono tre volte le persone che ci dovrebbero essere e nessuno modifica i meccanismi di sovraffollamento. E questi luoghi diventano l’inferno in cui confinare i problemi irrisolti come la mancanza delle politiche dell’immigrazione».

Amarezza, delusione? Chi gliel’ha fatto fare Morsello? «Sono deluso, certo, ma ci credo, forse più di prima. Anzi sa che cosa le dico? Io disprezzo gli indifferenti e tutti quelli che non si sporcano le mani».

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