di Marco Travaglio
Il prossimo ministro per i Rapporti con
Intanto il premier s’interroga un po’ inquieto su una frase del legale di Dell’Utri, Nino Mormino, che pare il sosia di Salvo Lima: “Dell’Utri è stato condannato solo per quanto avrebbe fatto prima del ‘92 per proteggere dalla mafia Berlusconi e le sue aziende…”. E su quella complementare dell’amico Marcello: “Mangano resta il mio eroe: non so se io, trovandomi al suo posto in carcere, riuscirei a resistere senza fare nomi…”. E chissà che non cominci a parlare qualcuno che in carcere è recluso da un pezzo. Già, perché la sentenza di ieri non era attesa soltanto dai politici, ma pure dai mafiosi, che fra l’altro sono gente seria. Anche loro, come chiunque abbia occhi per vedere, dovevano aver capito che una Corte più benevola, a Dell’Utri, non poteva capitare.
A parte le biografie dei tre giudici svelate dal Fatto (ma a Palermo le conoscono tutti), bastava seguire le loro mosse per farsi un’idea: no alla testimonianza di Massimo Ciancimino, apoditticamente ritenuto “contraddittorio” senza nemmeno sentirlo o guardarlo in faccia, rinunciando così, a prescindere, a un possibile riscontro alle parole di Spatuzza; no alle carte della Dda di Reggio Calabria sui rapporti telefonici tra Dell’Utri e il clan Piromalli nel 2008, perché un conto è la mafia e un altro la ‘ndrangheta; nessuna domanda a Filippo Graviano per saggiarne la credibilità quando ha provato a smentire Spatuzza (bastava chiedergli se avesse mai fatto parte di Cosa Nostra, lui avrebbe risposto di no e tutto sarebbe finito lì).
Facile prevedere che a Dell’Utri le cose sarebbero andate meglio in appello che in tribunale. Ma nessuno sapeva di quanto. Ora che si è buscato 7 anni al posto di 9, il mafioso serio non può non porsi una domanda: se il sistema, pur in circostanze così propizie, non riesce neppure a salvare se stesso proteggendo l’ideatore di Forza Italia e padre fondatore della Seconda Repubblica, dove troverà la forza di mantenere le promesse lasciate in sospeso?
La questione non riguarda tanto i mafiosi in libertà che, tra scudi fiscali e leggi anti-pentiti e anti-intercettazioni, non se la sono mai passata meglio. Quanto i mafiosi detenuti che, a parte il contentino della chiusura di Pianosa e Asinara, attendono ancora la ciccia: una scappatoia all’ergastolo o almeno al 41-bis. Fra questi c’è Giuseppe Graviano, vero capo di Spatuzza che, lungi dallo smentirlo, al processo ha preso tempo, lamentandosi per il 41-bis e riservandosi di parlare e decidere che dire in un secondo tempo.
Ora il suo potere contrattuale, con l’assoluzione di Dell’Utri per il post-1992, aumenta a dismisura: se le parole di Spatuzza (in aggiunta a quelle di Giuffrè e agli innumerevoli fatti documentati degli anni ‘90) non sono bastate ai giudici per provare il nuovo patto Stato-mafia, che accadrebbe se parlasse Graviano? I mafiosi non badano al diritto, che ritengono inutile sovrastruttura, ma alla prassi, cioè ai rapporti di forza e potere. Sono gli ultimi marxisti su piazza. Se Dell’Utri rischia di finire in galera, vuol dire che il sistema è tutt’altro che un monolite granitico, anzi si sta sbriciolando. Come
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