

di Vladimiro Giacché
Nel sentire la proposta del ministro Tremonti di modificare l’art. 41 della Costituzione “per promuovere la libertà d’impresa”, molti hanno pensato a un tentativo di distrarre l’attenzione dalla manovra da 25 miliardi che veniva servita negli stessi giorni. Sta di fatto che il 18 giugno un disegno di legge costituzionale in materia è stato effettivamente presentato al Consiglio dei ministri. La relazione di accompagno contiene di tutto, dal grafico dell’incremento “kilometrico” [sic!] delle normative delle Gazzette Ufficiali italiane alla superficie sviluppata da queste stesse normative nel 2009 (933 mq). Oltre a questi dati (preziosi per i lettori della Settimana Enigmistica), leggiamo che è colpa della “follia regolatoria” se è difficile fare impresa in Italia. Ma scopriamo anche che l’“abrogazione” o “semplificazione” delle leggi inutili ha prodotto risultati “insoddisfacenti”. E questa sembrerebbe una cattiveria nei confronti dell’onorevole Calderoli e del suo ministero per
Il ragionamento è così profondo che chi scrive confessa di non averlo capito. Si tratta di un esempio di letteratura alta, e anche di uso innovativo della lingua italiana (nella quale sino ad oggi “maleficio” non era l’opposto di “beneficio” ma significava un’altra cosa). Il testo alla fine propone la soluzione per domare la “massa giuridica che è uscita di controllo e che si alimenta in modo mostruoso”: cambiamo
Bisogna fare dell’art. 41 un “baluardo costituzionale contro la complicazione normativa”, aggiungendo al testo queste parole: “
I motivi per essere contrari a queste proposte sono più d’uno.
In primo luogo, l’articolo della Carta che si vorrebbe cambiare non ha mai limitato la libertà d’impresa: non esiste un solo caso di ricorso alla Consulta in proposito. In compenso, il fatto di dare un rango costituzionale alla cattiva prassi (già invalsa) di controlli soltanto ex post sull’attività economica, oltretutto in un Paese come il nostro in cui è diffusa l’avversione al rispetto delle regole, aprirebbe la strada ad infiniti abusi. A cominciare da quelli di natura urbanistica: fra l’altro nell’art. 3 del ddl costituzionale si vincolano le amministrazioni pubbliche ad adeguare proprio le normative “in materia urbanistica” al nuovo dettato costituzionale. Sentire proporre oggi un “piano di deregulation per la libertà d’impresa”, come ha fatto Tremonti parlando a Santa Margherita davanti ai giovani industriali, lascia quantomeno perplessi. E non soltanto perché la proposta viene da chi aveva fatto della battaglia contro la “deregulation” e contro il “mercatismo” la sua bandiera. Ma perché riproporre oggi la parola d’ordine della “deregulation” significa non avere capito niente della crisi che stiamo vivendo. Da questa crisi non si potrà uscire se non rompendo con l’ideologia e la pratica del liberismo selvaggio, della logica del profitto aziendale quale unico criterio dell’attività economica.
La verità è che il testo attuale dell’art. 41 è tanto più importante perché, negando che l’attività economica privata possa svolgersi “in contrasto con l’utilità sociale o in modo da arrecare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”, e richiamando i “fini sociali” dell’“attività economica pubblica e privata”, ci dice proprio questo. C’è un ultimo motivo per cui la posizione del governo è sbagliata. Si tratta del nesso tra deregulation e nascita di nuove imprese. In Italia non nascono meno imprese che altrove. Ma una volta nate non diventano grandi. Le piccole e medie imprese non sono soltanto piccole: sono sempre più piccole. Lo sono di più oggi che nel 1971: 4 addetti in media per impresa (e il 95% delle imprese che non supera i 10 dipendenti). Con queste dimensioni le nostre imprese non vanno da nessuna parte. Perché non possono fare i necessari investimenti in ricerca e non hanno le economie di scala per competere. Per questo il nostro principale problema, oggi, sono le imprese che muoiono.
La priorità dovrebbe essere la realizzazione di processi di concentrazione tra imprese. Anziché cercare di peggiorare

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