Pianifica, scientificamente, la rottura con Fini. "Perché quel traditore merita solo di essere punito". Una trappola che Berlusconi vuole tendergli sulle intercettazioni in commissione Giustizia.
Tutta giocata su modifiche "minime" che i finiani non potranno accettare e su cui, per coerenza, dovranno votare contro. "Un secondo dopo che lo avranno fatto, li buttiamo fuori dal partito". Vede rosso, il Cavaliere. Contro il presidente della Camera e contro il Quirinale. Delle intercettazioni, in fondo, non gli importa più granché, ma vuole sfruttarle politicamente per chiudere una "coabitazione" politica divenuta, come lui dice, "insopportabile" e per mettere in chiaro i rapporti con il Colle. Contro cui, in tre ore di vertice, le espressioni verbali non sono meno soft di quelle usate nei confronti di Fini. La strategia per fare i conti li accomuna entrambi. Il mezzo sono le intercettazioni. La conseguenze della sfida, messa nel conto, le elezioni anticipate nella primavera del 2011. Soprattutto se Casini dovesse rifiutare l'apertura che il premier sta pensando di fargli per sostituire l'odiato Fini. Anche se il presidente della Camera ha già fatto sapere che non intende cadere nella "trappola". Ricorda quello che è accaduto all'ultima direzione del Pdl e ripete: "Non lascerò mai il partito che, da cofondatore, ho contribuito a far nascere".
Ecco allora il progetto che, in due mosse, il Cavaliere ha messo a punto a palazzo Grazioli. Prima chiudere conti con Napolitano. Poi l'uppercut a Fini. Quella col capo dello Stato più che una trattativa sulle intercettazioni, sarà solo una "comunicazione". Affidata a Gianni Letta, da giocare in fretta, con un mandato da chiudere lunedì. Ordini chiari: "cambiamenti minimi" li chiama il premier "non accetteremo né tutte le richieste del Quirinale, né tantomeno quelle di Fini". Sa che sul Colle gli umori contro di lui sono pessimi per via della legge, ma non solo. C'è il caso Brancher, giudicato ai piani alti della presidenza della Repubblica del tutto incomprensibile, per il pasticcio delle deleghe di cui perfino Bossi s'è lamentato con Napolitano, e per le conseguenze di un ministro divenuto tale solo per fruire del legittimo impedimento e ora, di fronte a una prossima sentenza, già candidato alle dimissioni. E c'è la manovra, dove il capo dello Stato vede margini ridotti per fare delle modifiche visto che Tremonti resiste e rifiuta i tagli. Ma è il grande marasma delle intercettazioni a essere giudicato inaccettabile. Né la più alta carica si rasserena per la promessa di un rinvio del voto a settembre. Vede le continue forzature. Ambiguo il continuo tira e molla tra la minaccia della fiducia e poi la garanzia dei cambiamenti e dello slittamento in aula.
Ma adesso Berlusconi ha deciso: solo "ritocchi", perché quella legge è lo strumento della sfida con Fini. La road map prevede subito il voto in commissione e, quando i finiani si opporranno e voteranno contro, l'espulsione di tutto il gruppo dal partito. Nel frattempo si aprirà il canale politico con il leader dell'Udc Casini. Nel conto il premier ci mette il futuro altolà di Napolitano che potrebbe rifiutarsi di firmare la legge. Per questo lavora a sminare l'ostacolo. E ordina a Nicolò Ghedini di attaccare a testa bassa il Quirinale. E ne ignora volutamente le reazioni. Che sul Colle sono più ironiche che infuriate. Intanto perché sul tavolo del presidente piovono messaggi di solidarietà anti-Ghedini anche da parte di molti esponenti del Pdl. E poi perché il tentativo di Ghedini di spiegare proprio al Colle quando e come il capo dello Stato debba rinviare una legge viene considerato improponibile. Si ricordano i precedenti, a partire da Einaudi.
Sistemato il Colle, tutte le energie di Berlusconi si concentrano contro Fini. Ritorna l'ossessione di volerlo sbalzare di sella dalla presidenza della Camera, perché "non è possibile che ci attacchi sfruttando la poltrona su cui lo abbiamo messo noi e il fatto di essere il co-fondatore di questo partito. Gli dobbiamo togliere l'uno e l'altro". Ma, come gli spiegano i suoi, un presidente si può solo dimettere, non lo si può obbligare ad andarsene. E allora Berlusconi vuole metterlo fuori dal Pdl. Lo sfida ("Vediamo in quanti lo seguono se lo cacciamo via"). Ne minimizza il peso ("Tanto possiamo farcela anche senza di loro, ricordatevi che Prodi ha governato solo con due senatori in più"). Non sopporta più le sue performance ("Con Bondi ha fatto proprio una mascalzonata"). È esasperato dai suoi continui distinguo ("Non è possibile che i finiani ormai si comportino peggio di quelli dell'opposizione, adesso non gli sta nemmeno più bene il lodo Alfano"). Considera che "il tempo delle mediazioni sia finito per sempre". E dà al fido Cicchitto un ordine: "Di a tutti che ha finito di giocare. La sua storia nel Pdl è chiusa".
(03 luglio 2010)
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