lunedì 12 luglio 2010

IL CARCERE TRA RECLUSIONE E TRATTAMENTO


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DIRETTORE ROBERTO ORMANNI

di Luigi Pagano*

Penso sia difficile per chiunque commentare un libro di un suo collega, a prescindere dal mestiere che si esercita, perché è come leggere di se stesso in terza persona, magari non con le stesse vicissitudini, ma con la stessa partecipazione emotiva.

Figuriamoci, poi, un lavoro come il dirigere un carcere, un mestiere stranissimo, non per le sue particolari difficoltà, quanto per quel retrogusto di amaro, di insoddisfazione costante che non ti lascia mai neppure quando lo si affronta, così come lo ha fatto Luigi, oltre che con elevata capacità professionale, con onestà e valori fortemente radicati.

Anzi, oserei dire che forse, in questo caso, addirittura si accentua.

Il carcere, quello moderno intendo, fonda la sua ragione d’essere su due principi fondamentali che risultano ineccepibili singolarmente considerati, ma creano non poche difficoltà se, come in questo caso, dovrebbero, uso volutamente il condizionale, essere perseguiti contestualmente.

Mi riferisco, per essere chiaro, alle istanze punitive e a quelle trattamentali che si vuole debbano essere rivolte al recupero del condannato.

Nessuno potrebbe mai eccepire che queste non siano finalità legittime, la seconda peraltro è espressione di un raggiunto grado di civiltà, ma la riflessione che bisognerebbe fare è se esse possano essere perseguite nello stesso momento e utilizzando lo stesso mezzo, in questo caso il carcere.

Voglio essere ancora più esplicito restringendo l’obiettivo sul punto controverso: la detenzione è una punizione che consiste nel tenere segregata una persona (questa e solo questa è la ragion d’essere della punizione) dal contesto sociale, ma, in relazione all’art. 27 della Costituzione, deve anche porsi quale obiettivo il reinserimento sociale del condannato. La questione è tutta qui ovvero se sia possibile segregare e allo stesso tempo risocializzare. E ben si comprende che questo nodo non è mera speculazione intellettuale, ma porta conseguenze tangibili nell’organizzazione delle carceri e, quindi, sulla vita delle persone che ci sono affidate.

Un direttore di carcere, come Luigi ha ben descritto, deve governare, tentare di portare coerenza in una istituzione che semplicemente non lo è, che vive di stridenti contraddizioni e rischia di implodere ogni qualvolta una di quelle due finalità si allontana da un indefinito centro mettendo a serio rischio l’equilibrio del sistema.

Quell’amaro che dico ognuno di noi avverte alla fine della giornata, anche quando non si sono verificati eventi critici significativi, sono tutte in questa lacerante situazione. Immagini che il tuo mandato accompagni all’essere carceriere il dovere di salvaguardare la dignità dell’uomo a te affidato e di recuperarlo alla comunità, ma ti accorgi ben presto che quell’ipotetico centro su cui si impernia l’instabile equilibrio ti consente pochi spazi di manovra, suggerisce cautela, alimenta dubbi, evoca, per ogni scelta sbagliata, scenari di dramma. E drammi niente affatto ipotetici.

Non è qui la sede per approfondire l’argomento, è solo per dire che l’istituzione, nata per altri, nobili fini, sottrarre il condannato ai supplizi così largamente utilizzati nel secolo decimo ottavo, ma, poi, tenendolo ben chiuso tra quattro solide mura, offre una naturale ritrosia ad aprirsi al mondo esterno.

Ritrosia e diffidenza, comunque, specularmente ricambiata dal consesso esterno che invece di guardare al carcere e alla necessità di reinserimento sociale, come il modo più efficace di “creare sicurezza” (“Ogni persona recuperata è un pericolo in meno per tutti”) evitando la recidiva, se ne disinteressa, è distratto, lo lascia ai margini del mondo indifferente alla sorte di quelle persone che vi sono ristrette, ma che pure un giorno, per la maggior parte di loro dovrà essere dimessa.

Due mondi, quindi, che a dirla con un eufemismo si ignorano.

Queste sono le dinamiche che l’istituzione carcere dispiega, forze contrastanti e in contraddizione, quanto più un carcere è impermeabile al mondo esterno tanto più aumentano le possibilità che chi vi è ristretto continui a commettere reati e, all’inverso, le attività in aumento, lavorare sul riscatto dell’uomo detenuto ti espone a rischi di sicurezza direttamente proporzionali alle attività che si svolgono all’interno.

Se non si comprende questo contesto ben difficilmente può essere inteso nella sua interezza lo sforzo titanico posto in essere da Luigi in questa battaglia, volta a tentare di cambiare il carcere, lotta ancor più difficile se si pensa che egli opera a cavallo tra il vecchio ordinamento varato dal Guardasigilli Rocco e la riforma penitenziaria del 1975, una riforma epocale, rivoluzionaria rispetto al precedente ordinamento, ma senza che lo Stato vi avesse granché investito in termini culturali e di risorse.

Luigi ha dovuto combattere contro mille ostacoli, le strutture inefficienti, la carenza di risorse, il personale, la magistratura, l’opinione pubblica, gli stessi detenuti che da una posizione di passività dovevano divenire parte attiva in quello che veniva definito processo trattamentale.

Io l’ho conosciuto negli anni ’90, aveva già alle spalle lunghi anni di carriera e quelli che possono essere considerati incidenti di percorso, ma non ho mai trovato in lui rimpianti, pentimenti sul suo fare, un cedimento di dignità. Perché in ogni istituto dove ha prestato servizio, spesso chiamato a districare situazioni molto compromesse (me ne sono servito anche io impiegandolo presso il carcere di Lecco, appena inaugurato, che sembrava nonostante fosse stato appena inaugurato ancora in alto mare per il suo funzionamento), si è sempre premurato di rispettare e fare rispettare la legge, attento ai profili di efficienza dell’organizzazione per garantire dignità non solo ai detenuti, ma anche alle condizioni di lavoro adeguato per chi vi lavora. Magari fornendo adeguata illuminazione al dimenticato agente di guardia alla torretta Marchese in Pianosa (e chissà da quanti anni si era in quelle condizioni) comandato di servizio a scongiurare possibili attacchi esterni, munito solo di una tremula candela e di un fucile che chissà se avrebbe mai sparato.

E spesso ha pagato a caro prezzo talune conseguenze negative per scelte il cui rischio, a lui era ben noto, non forniva certo il pretesto per “non fare”, ma in primo luogo, penso, egli abbia scontato la scomodità del suo puntiglioso senso del dovere e l’irriconoscenza, e torna il retrogusto amaro, di un’Amministrazione incapace di riconoscergli anche gli indubbi successi conseguiti quale il lavoro condotto sui sex offender insieme al dottor Morini presso la Casa Circondariale di Lodi.

Ma Luigi non si è mai fatto abbattere, è una sua caratteristica quella di non farsi condizionare nelle scelte dagli episodi negativi che gli sono capitati né dalle scorrettezze che gli sono state recate; e così dalla prima volta che entrò in istituto sino a quando ha permesso alla C.C. di Lecco di poter ripartire dopo dieci anni di chiusura, si è sempre concesso il lusso di continuare a pensare, e cercare, di migliorare lo status quo, non per riscatto verso chi non gli aveva creduto, bensì per fedeltà al giuramento fatto allo Stato e nel rispetto di sé stesso.

Lo dimostra anche con questo libro. L’io narrante non è utilizzato per mettersi in primo piano o compiangersi per gli indubbi torti che ha dovuto subire, ma raccontare, per meglio descrivere gli avvenimenti, e parliamo di 40 anni di Storia della nostra Repubblica, aggiungendo profondità, la terza dimensione dei retroscena, agli eventi; lo stile è quello di un moderno Annalista, il testimone dell’accaduto mette la memoria di chi ha visto al servizio di noi tutti, il vissuto professionale ci viene così utilmente restituito perché l’esperienza del passato possa evitare il verificarsi di nuove tragedie.

* Dirigente generale, Provveditore Regionale dell’amministrazione penitenziaria della Lombardia

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