di Lirio Abbate
La condanna in appello lascia aperta la questione del patto tra mafia e Forza Italia. Mentre vanno avanti le indagini sui misteri delle stragi. E il parlamentare prosegue gli affari con Carboni e Verdini
Mentre a Milano infuria Tangentopoli l'ex democristiano Ezio Cartotto viene ingaggiato in gran segreto da Marcello Dell'Utri per studiare un'iniziativa politica della Fininvest in previsione del crollo dei partiti amici. Siamo fra maggio e giugno del 1992 e l'allora numero uno di Publitalia pensa a come far nascere Forza Italia. Dell'Utri però sostiene che l'idea del partito "azzurro" gli fu comunicata a sorpresa da Silvio Berlusconi "solo a fine settembre 1993". La tesi sostenuta dalla procura di Palermo sull'origine del movimento politico avvenuta quasi in concomitanza con le stragi di Falcone e Borsellino, potrebbe essere avvalorata dalla sentenza dei giudici della Corte d'appello che hanno confermato la condanna per il senatore Dell'Utri, riducendola a sette anni (in primo grado erano nove gli anni inflitti) per concorso esterno in associazione mafiosa.
La sentenza chiude una volta per tutte il capitolo sui rapporti tra il partito azzurro e Cosa nostra? Non proprio. I magistrati di secondo grado, pur riconoscendo il coinvolgimento del braccio destro di Berlusconi negli affari della mafia negli anni Settanta e Ottanta, hanno però posto dei paletti al capo di imputazione che gli veniva contestato. Il limite oltre il quale non si deve andare, secondo la corte d'appello, è proprio quello del 1992. Da quell'anno orribile, insanguinato dalle stragi, Dell'Utri va assolto. Ufficialmente in quel periodo è ancora un manager al fianco dell'imprenditore Berlusconi, ma i suoi contatti con i boss proseguono. E forse proprio allora si trasforma in politico. Lui che non aveva mai fatto politica fino ad allora. Una metamorfosi che potrebbe essere avvenuta proprio nel 1992 un anno prima dalla data che l'imputato fornisce ai magistrati, diventando così da manager a uomo che si occupa di politica.
La corte d'appello fissa dunque dei paletti al capo d'imputazione i cui reati vengono contestati a partire dal 1970 "in poi". Oltre trent'anni di storia criminale riversata sulle spalle di un Marcello Dell'Utri imprenditore, uomo d'affari, intermediario, manager. Poi, però, diventa politico. Ed è su questo confine che i giudici possono aver alzato un muro. Se le motivazioni della sentenza di condanna lo confermeranno, ci potremmo trovare davanti ad un fatto nuovo che potrebbe avere ripercussioni nelle inchieste giudiziarie che le procure di Palermo, Caltanissetta e Firenze stanno conducendo sulla trattativa fra Stato e mafia, sulle stragi e i loro mandanti occulti. Infatti, se venisse accertato anche in secondo grado che si inizia a preparare la nascita di Forza Italia in prossimità delle bombe di Capaci e via D'Amelio, i risvolti giudiziari potrebbero essere notevoli. In ambienti giudiziari fanno notare che la sentenza decisa dalla corte presieduta da Claudio Dall'Acqua riguarda solo Dell'Utri imprenditore, quello che riesce a saldare i patti fra Cosa nostra e le aziende di Silvio Berlusconi.
Il reato di concorso esterno in associazione mafiosa non troverebbe più applicazione quando l'imputato diventa politico. In questo caso, rispettando probabilmente il dettato giurisprudenziale della Cassazione, sarebbe più difficile provare il patto con i boss, o il "guadagno" che ne avrebbe avuto Cosa nostra. Ma se così fosse, sostengono in procura a Palermo, quel "gradino" che voleva il pubblico ministero dalla Corte potrebbe essere stato realizzato. Il pg Nino Gatto, che ha sostenuto l'accusa, lo ha detto chiaramente nell'ultima udienza ai giudici che stavano per entrare in camera di consiglio: "Dovete prendere una decisione storica, non solo dal punto di vista giudiziario, ma per il nostro Paese. Voi potete contribuire alla costruzione di un gradino salito il quale, forse, si potranno percorrere altri scalini che potranno far accertare le responsabilità che hanno insanguinato il nostro Paese. Oppure potete distruggere questo gradino".
I fatti di questo processo a Dell'Utri, che viene visto come "mediatore", "tessitore", colui il quale interviene in modo provvidenziale a risolvere i problemi di crisi dell'organizzazione mafiosa con il mondo economico e quello politico, sono dimostrati da una serie impressionante di elementi concreti documentati da testimoni insospettabili, carte, agende, filmati, fotografie, intercettazioni telefoniche e ambientali, addirittura ammissioni dello stesso imputato. E da qui i pm sono risaliti alle parole dei collaboratori di giustizia, quegli ex mafiosi che spiegano quei fatti secondo la logica interna e l'evoluzione storica dell'organizzazione di cui hanno fatto parte per una vita. Il tema della strategia stragista e della sua attuazione è rimasto fuori dal processo. I pm avevano fatto emergere davanti ai giudici del tribunale solo il loro punto di vista che è stato espresso parlando dell'evoluzione della strategia. Ciò che è emerso è il risultato di buoni rapporti fra gli uomini di Cosa nostra e Dell'Utri che sono sopravvissuti agli anni del "terrore". La considerazione di cui il braccio destro di Berlusconi godeva fra i clan prima della stagione delle bombe, per i magistrati "è rimasta intatta pur nel clima di terrore di quegli anni, in cui diventarono obiettivo della violenza mafiosa non solo i nemici della mafia, ma anche quelli che un tempo erano ritenuti dai boss di Cosa nostra amici della mafia, ma ora non più affidabili".
L'accusa aveva sostenuto che la mafia si era adoperata nei primi anni '90 per irrobustire la rete delle relazioni con Dell'Utri e rendere più pesante il suo ruolo, favorendo la trasformazione da semplice uomo d'affari a uomo politico. "Per agevolarne l'ingresso dalla porta principale del mondo delle istituzioni, per incrementare il peso all'interno del mondo di cui faceva parte e in quello dello Stato" come ha sostenuto il pm Antonio Ingroia. Tutto ciò è al limite con quello che il dispositivo della sentenza di appello stabilisce adesso, fissando il contributo del parlamentare a Cosa nostra fino al 1992. L'ex procuratore antimafia Pier Luigi Vigna davanti ad una decisione come quella presa dalla corte d'appello vuole essere molto cauto: "Il concorrente esterno, come nel caso di Dell'Utri, non è permanente all'organizzazione. È possibile che le cose possano essere cambiate dal '92 in poi. Questa decisione complica le cose per i colleghi che stanno lavorando su quei fatti che riguardano le stragi. Adesso è tutto più difficile, anche se le motivazioni potranno svelarci la giusta strada da percorrere". E poi aggiunge: "Se in passato la procura di Firenze nel periodo in cui ero procuratore chiese ed ottenne l'archiviazione per Dell'Utri e Berlusconi, un motivo valido c'era e forse questa decisione di Palermo si potrebbe collegare alle nostre motivazioni di allora".
Il ruolo svolto dal senatore nei primi anni Novanta è però collegata in qualche modo a indagini che sono in corso sulle stragi e la presunta trattativa fra boss e uomini della politica e delle istituzioni. A Firenze si tenta di accertare il presunto ruolo di Dell'Utri nella strategia di Cosa nostra, di cui ha parlato il collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza; a Caltanissetta è stata riaperta l'inchiesta sull'autobomba di via D'Amelio proprio su nuove rivelazioni di pentiti; a Palermo l'indagine sulla trattativa riguarda anche la nascita del nuovo soggetto politico che sostituì i "vecchi referenti" spazzati via da Tangentopoli, dalle bombe e dagli omicidi. I magistrati impegnati in queste istruttorie sono tranquilli di poter proseguire la loro attività, nonostante questa sentenza ponga un temine temporale. "Potrebbe essere ostativo a nuove indagini solo se i giudici di Palermo nelle loro motivazioni scrivessero di aver trovato la prova inoppugnabile che Dell'Utri non ha commesso i fatti per i quali in passato è stato indagato a Firenze, Caltanissetta e Palermo. Solo in questo caso potrebbe essere fermato il nostro lavoro. La corte d'appello non è
Anche Marcello Dell'Utri va avanti con le sue iniziative, non solo parlamentari. Le ultime indagini lo indicano ancora attivo negli affari, in società con Flavio Carboni: il faccendiere più volte chiamato in causa nelle trame italiane, di ieri e di oggi. L'inchiesta sugli impianti eolici in Sardegna ha evidenziato il ruolo di un misterioso ufficio romano, a cui facevano capo Carboni, Dell'Utri e Denis Verdini, l'uomo che l'ha sostituito nel coordinamento del partito.
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