Il governo si rifiuta perfino di incontrare le Regioni per discutere la manovra.
I governatori insorgono
La manovra non cambia e si prepara a iniziare il suo esame in Senato non troppo diversa da come era entrata in Commissione Bilancio. Risultato: la guerra tra governo e Regioni è ormai inevitabile. “Non voglio credere che si voglia far partire uno scontro istituzionale”, ha detto ieri sera Roberto Formigoni, governatore della Lombardia. Il problema vero, l’incidente diplomatico che sta facendo precipitare la situazione, non sono tanto i tagli ai trasferimenti dallo Stato agli enti locali, quanto il rifiuto del presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, a incontrare i governatori per discuterne.
Dopo una giornata di tensioni, lunedì sera Berlusconi aveva annunciato di essere pronto a vedere Vasco Errani governatore dell’Emilia Romagna e rappresentante della categoria. Invece niente. Ieri mattina si è rimangiato tutto. Niente incontro. L’unico faccia a faccia tra l’esecutivo e le Regioni ci sarà giovedì, alla conferenza unificata Stato-Regioni, con il ministro per gli Affari regionali Raffaele Fitto e, per l’occasione anche il ministro dell’Economia Giulio Tremonti. Ma niente Berlusconi, non sarà lui a spiegare alle Regioni che della manovra si possono rivedere le minuzie, come l’innalzamento della soglia di invalidità che dà diritto alla pensione, ma sul cuore del risanamento non si discute: la riduzione di 8,5 miliardi in due anni di trasferimento dallo Stato alle Regioni non può cambiare. E sarà comunque troppo tardi: giovedì
IL CALCOLO. Unico contentino, tempi e modi dei tagli saranno discussi tra Stato e governo in conferenza Stato-Regioni, invece che fatti in modo proporzionale come prevedeva il testo originario della manovra. “Il rischio è che alla fine non si mettano d’accordo, perché chi ci perde chiederà i tagli proporzionali invece che quelli misurati sulla base di altri parametri”, spiega il senatore del Pd Paolo Giaretta, un po’ scettico sul meccanismo di calcolo che dovrebbe premiare le Regioni virtuose e accelerare il risanamento in quelle con i conti fuori controllo. Formigoni sa che per
CAMBIA TUTTO? Ieri mattina i giornali più vicini al centrodestra esultavano: “Berlusconi riscrive la manovra”, si leggeva nei retroscena, il quotidiano Libero si sbilanciava ancora di più: “Pietà sulle tasse, la manovra diventa di destra”. Tanto entusiasmo derivava dalle rassicurazioni ottenute da Emma Marcegaglia. Il presidente di Confindustria aveva raccontato che in una telefonata – “inelegante”, secondo il segretario del Pd Pier Luigi Bersani – Berlusconi e Tremonti avevano promesso di modificare le misure anti-evasione su riscossioni dei crediti fiscali e compensazioni tra debiti e crediti che dovevano costare alle imprese almeno sei miliardi di euro in due anni. Ma le cose non sono così semplici come le ha fatte Berlusconi. Non è ben chiaro dove il governo possa trovare i soldi che contava di incassare dalle misure restrittive sulle imprese. E infatti i lavori stanno ritardando in Commissione proprio perché il relatore di maggioranza Antonio Azzollini (Pdl) deve ritoccare tutti gli emendamenti di ispirazione governativa più contestati. Sarà chiaro soltanto questa sera se Berlusconi riuscirà a rispettare l’impegno preso con
MARMOTTE. Per usare la formula di sintesi del ministro Renato Brunetta, “la manovra sembra il manuale delle Giovani Marmotte. Dentro c’è di tutto”. Anche se i saldi finali non sono stati toccati e restano di 25 miliardi, l’impianto della Finanziaria è già stato stravolto dal primo passaggio in Commissione. La guerriglia sotterranea contro il ministro Tremonti ha stravolto il sistema dei tagli orizzontali di spesa, che dovevano essere lo strumento (arbitrario ma imparziale) con cui Tremonti voleva imporre il risanamento. Adesso tutto è tornato discrezionale, negoziato, suscettibile di variazioni o rimandi. E quindi le trattative sono destinate a proseguire, soprattutto in vista di un possibile maxi-emendamento che il governo potrebbe usare per modificare ancora la manovra un attimo prima del voto di fiducia in Senato che dovrebbe arrivare a metà della prossima settimana.
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