

LA “DOTTRINA” DEL GOVERNATORE VENETO MA I BIG DEL CINEFESTIVAL DISERTANO
di Malcom Pagani
Il tappeto rosso di Luca Zaia è un vigneto dimenticato dal mondo. Isola di Mazzorbo, laguna veneziana, case pastello, solitudine e mezzogiorno di nuvole nere all’orizzonte. El Governator del Veneto sbarca da un taxi-boat, abbigliato con la costruita semplicità di un uomo in corsa. Jeans e scarpe da ginnastica, frenesia, compiacimento. Zaia si adora, ma nonostante la gita al vigneto puzzi di paleofascismo in stile campagna del grano, non si spoglia. Per arrivare a capire se più in là della claque, nella commistione di dialetto e proclami, decisionismo e attitudine al comando, l’uomo nuovo abbia definitivamente convinto anche il suo popolo, c’è bisogno di prove tangibili. Dipanare la sciarada leghista necessita di gambe e fiato. Sulla vendemmia cinefila, Zaia aveva puntato molto. Sognava Quentin Tarantino, avrebbe preso in spalla Depardieu e Deneuve e alla fine, si era entusiasmato persino per la madrina della Mostra, Isabella Ragonese. Il primo ha risposto con indistinte gutturali. Per gli altri, epidemia. L’attore francese infortunato, Catherine non pervenuta e l’italiana prontissima ad addurre un’indisposizione fulminante, in bilico tra fuga e ripulsa, balbettata dal presidente della Biennale Baratta: “Colpa dell’aria condizionata” con gli occhi piantati a terra. In fondo, importa poco.
FERMARSI è impossibile e se il duello con Galan è momentaneamente disarmato: “Perché non è qui? Gli inviti non li ho fatti io”, la sfida con il clone versione greve, Tosi, e quella in prospettiva con l’efficientista Cota, rischiano di approfondire le rughe sul volto e la preoccupata cupezza che di tanto in tanto, si affaccia sulla maschera di Zaia. Il Doge dà del tu a tutti. Bambini down, nobili dal triplo cognome, contadini no-global che sognano l’esproprio delle terre demaniali, attempate signore ingioiellate che senza timori lo salutano come vecchie amiche. I giornalisti premono, i cameraman sradicano piante rare che il viticoltore del posto, Biasol, ha riesumato dai libri di botanica del ‘500. Zaia coglie un pomodoro. Lo addenta e indica la strada: “Tutti fuori dall’orto”. Poi, all’ora del discorso ufficiale, facilitato dalla prosopopea di Baratta: “Vi offro una metafora,
LE RADICI però restano quelle. Roma, naturalmente è sempre troppo affamata: “Ma le pare che i tedeschi avrebbero replicato il Festival di Berlino ad Hannover?”. Però il governatore che ha il terrore delle passerelle sistemiche: “L’ostentazione del potere accende sempre i peggiori istinti. Se mi avessero fischiato sul tappeto rosso? Avrei dovuto scavalcare la transenna. Ma non sono violento e ho un passato da obiettore di coscienza”, una patente la rifiuta: “Non sono un ladro e vivo del mio”. Il rivoluzionario legato alle tradizioni pesa le alleanze: “Bondi lo difendo. Delle dinamiche del salotto virtuale dello spettacolo non so nulla però so che se non sei dei ‘loro’, semplicemente non esisti”. Sa graffiare: “Elisabetta Sgarbi chi è?” e si lancia nel dipingere un Pantheon cinematografico felliniano. Da Amarcord ai Vitelloni. “Una storia esemplare. Se non fai niente e perdi tempo, finisci male”. E lui, tempo per sbagliare non ne ha più. La clessidra scorre. Se lo osservi attentamente in controluce sembra di vedere Leopoldo Trieste nel film del ‘53: “E una mattina ti svegli, eri ragazzo fino a ieri e adesso non lo sei più”.

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