sabato 4 settembre 2010

Così parlò il Doge Zaia: “Meglio le puttane dei fannulloni”


LA “DOTTRINA” DEL GOVERNATORE VENETO MA I BIG DEL CINEFESTIVAL DISERTANO LA SUA GITA TRA LE VIGNE

di Malcom Pagani

Il tappeto rosso di Luca Zaia è un vigneto dimenticato dal mondo. Isola di Mazzorbo, laguna veneziana, case pastello, solitudine e mezzogiorno di nuvole nere all’orizzonte. El Governator del Veneto sbarca da un taxi-boat, abbigliato con la costruita semplicità di un uomo in corsa. Jeans e scarpe da ginnastica, frenesia, compiacimento. Zaia si adora, ma nonostante la gita al vigneto puzzi di paleofascismo in stile campagna del grano, non si spoglia. Per arrivare a capire se più in là della claque, nella commistione di dialetto e proclami, decisionismo e attitudine al comando, l’uomo nuovo abbia definitivamente convinto anche il suo popolo, c’è bisogno di prove tangibili. Dipanare la sciarada leghista necessita di gambe e fiato. Sulla vendemmia cinefila, Zaia aveva puntato molto. Sognava Quentin Tarantino, avrebbe preso in spalla Depardieu e Deneuve e alla fine, si era entusiasmato persino per la madrina della Mostra, Isabella Ragonese. Il primo ha risposto con indistinte gutturali. Per gli altri, epidemia. L’attore francese infortunato, Catherine non pervenuta e l’italiana prontissima ad addurre un’indisposizione fulminante, in bilico tra fuga e ripulsa, balbettata dal presidente della Biennale Baratta: “Colpa dell’aria condizionata” con gli occhi piantati a terra. In fondo, importa poco.

FERMARSI è impossibile e se il duello con Galan è momentaneamente disarmato: “Perché non è qui? Gli inviti non li ho fatti io”, la sfida con il clone versione greve, Tosi, e quella in prospettiva con l’efficientista Cota, rischiano di approfondire le rughe sul volto e la preoccupata cupezza che di tanto in tanto, si affaccia sulla maschera di Zaia. Il Doge dà del tu a tutti. Bambini down, nobili dal triplo cognome, contadini no-global che sognano l’esproprio delle terre demaniali, attempate signore ingioiellate che senza timori lo salutano come vecchie amiche. I giornalisti premono, i cameraman sradicano piante rare che il viticoltore del posto, Biasol, ha riesumato dai libri di botanica del ‘500. Zaia coglie un pomodoro. Lo addenta e indica la strada: “Tutti fuori dall’orto”. Poi, all’ora del discorso ufficiale, facilitato dalla prosopopea di Baratta: “Vi offro una metafora, la Biennale è la mia vigna” e dagli sguardi perplessi, intuisce rapido la stanchezza dei presenti e li libera dando loro ciò che si aspettano: “Ve la farò breve, sono contro chi promette che con gli Ogm si risanano i bilanci. L’unica via per risalire è unire tradizione e qualità, senza dimenticare l’identità veneta”. Un tuono interrompe il grande classico. Sorriso, calcolata pausa . Poi taglio di nastri, grappoli in bocca e indecoroso assalto al buffet molto poco padano, che il suo portavoce Beltotto sintetizza, rivelando la reale considerazione di un certo universo: “Ne ero sicuro, quando ci sono i giornalisti non rimane nulla”. Finita la parata, Zaia si concede. Usa la parola cazzo con mirabile frequenza, propugna un messaggio rassicurante che poco a che fare con le raffinatezze di Borghezio, definisce gli agricoltori di Mazzorbo “eroici” e mischia le carte, una carezza agli omologhi di Pantelleria e l’altra al partito. Eugenio Fascetti, l’allenatore di calcio, aveva coniato un termine che a Zaia, si attaglia alla perfezione. Il “casino organizzato” del Governator è il tutto e il niente. Ha promesso le dimissioni in caso di mancato statuto veneto entro il 2010, ma pare averlo dimenticato: “Non è esatto, ho detto solo che se non venisse ratificato, il Governo locale non avrebbe più alcuna ragione di rimanere in carica”. Smussare, frenare, ripartire. Confondere, soprattutto. I tagli dei consiglieri? Rimandati. Le grandi opere? Qualche strada provinciale. La vicenda leghista dei bonus bebè di Tradate?: “È passato il principio della residenza obbligatoria. Se quegli immigrati non ce l’hanno, i leghisti del luogo non hanno torto. Dobbiamo avere attenzione verso gli ultimi, ma non possiamo permettere che i primi retrocedano in coda. Bisogna razionalizzare , come fece la Repubblica veneziana che i perditempo ciondolanti li allontanava, ma al tempo stesso, permetteva che in città abitassero 80.000 puttane”. L’accoglienza – per Zaia – “è subordinata al rispetto delle regole” e se gli citi la barbarie di certe dichiarazioni di colleghi in fazzoletto verde, ciancia di pluralismo: “Perché noi siamo l’ultimo vero partito rimasto sul territorio” e addirittura di “cosmopolitismo obbligato, unica soluzione per il futuro”.

LE RADICI però restano quelle. Roma, naturalmente è sempre troppo affamata: “Ma le pare che i tedeschi avrebbero replicato il Festival di Berlino ad Hannover?”. Però il governatore che ha il terrore delle passerelle sistemiche: “L’ostentazione del potere accende sempre i peggiori istinti. Se mi avessero fischiato sul tappeto rosso? Avrei dovuto scavalcare la transenna. Ma non sono violento e ho un passato da obiettore di coscienza”, una patente la rifiuta: “Non sono un ladro e vivo del mio”. Il rivoluzionario legato alle tradizioni pesa le alleanze: “Bondi lo difendo. Delle dinamiche del salotto virtuale dello spettacolo non so nulla però so che se non sei dei ‘loro’, semplicemente non esisti”. Sa graffiare: “Elisabetta Sgarbi chi è?” e si lancia nel dipingere un Pantheon cinematografico felliniano. Da Amarcord ai Vitelloni. “Una storia esemplare. Se non fai niente e perdi tempo, finisci male”. E lui, tempo per sbagliare non ne ha più. La clessidra scorre. Se lo osservi attentamente in controluce sembra di vedere Leopoldo Trieste nel film del ‘53: “E una mattina ti svegli, eri ragazzo fino a ieri e adesso non lo sei più”.

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