Non è vero che i vertici della multinazionale svizzera si disinteressassero degli stabilimenti italiani. Anzi, li gestivano direttamente e ben sapevano che la questione morti da amianto, prima o poi, sarebbe scoppiata: per anni si sono attrezzati per parare il colpo, al punto di incaricare un’agenzia milanese per mettere a punto le strategie di comunicazione più adatte, senza trascurare un attento “monitoraggio” di Raffaele Guariniello.
È quanto emerge in questi giorni a Torino, alla ripresa del processo Eternit, che vede il miliardario svizzero Stephan Schmidheiny imputato di “disastro doloso permanente” per i morti causati dalle microfibre di amianto, oltre tremila decessi in tutta Italia, più di duemila nella sola Casale Monferrato: “Ma qui – dichiara sconsolato Bruno Pesce, ex sindacalista, storico animatore dell’associazione familiare vittime dell’amianto – si continua a morire, almeno uno alla settimana. Asbestosi, mesotelioma, tumore polmonare. È una strage”.
Gestione svizzera fin dal 1972
Il processo (iniziato nel l’aprile 2009 con oltre seimila parti civili) non è il primo in materia, ma i precedenti (tutti per omicidio colposo) si erano sempre rivolti a “pesci piccoli” dell’amministrazione di Eternit Italia. Il pool del procuratore aggiunto Raffaele Guariniello, questa volta, è andato oltre, chiamando in causa direttamente i vertici della multinazionale (oltre a Schmidheiny, il barone belga Louis De Marchienne). La proprietà si è sempre dichiarata estranea all’amministrazione degli stabilimenti italiani (Casale Monferrato, Bagnoli, Cavagnolo e Rubiera), ma la realtà che sembra emergere dal dibattimento è assai diversa. Secondo la relazione del commercialista Paolo Rivella, consulente dell’accusa, l’affidamento della gestione di Eternit Italia al gruppo svizzero risalirebbe – documenti alla mano – fin al 1972: “Dalle perizie – dichiara Pesce – emergono con chiarezza i ripetuti interventi di Schmidheiny in Italia. Nonostante la crisi del 1978, è evidente l’intenzione di continuare a investire sull’amianto; e in effetti, tra il 1980 e il 1983, si raggiunge il massimo storico del fatturato. Eppure, che l’amianto fosse un killer era cosa ben nota e se l’Eternit avesse chiuso prima del 1986 (data del fallimento dello stabilimento di Casale, ndr) ci saremmo risparmiati qualche centinaio di morti…”.
“Stephan Schmidheiny sapeva di essere il padrone degli stabilimenti italiani – dichiara in udienza Raffaele Guariniello – e ha fatto di tutto per nasconderlo”.
Neutralizzare la “grana”
Ma c’è di più: non solo gli imputati si sarebbero occupati direttamente della gestione delle fabbriche killer (pur conoscendo i rischi per la salute), ma – anche dopo il 1986 – avrebbero continuato ad interessarsi della vicenda preparandosi attivamente a neutralizzare la “grana” morti d’amianto: “Abbiamo scoperto – spiega il perito Rivella – che Schmidheiny, tra il 2001 e il 2005, pagò un milione di euro all’agenzia MLeS Bellodi di Milano per organizzare una rete di informatori in grado di manovrare l’informazione sull’amianto. L’agenzia proponeva le strategie, suggerendo agli svizzeri di tenere un basso profilo”. Particolare attenzione, poi, era rivolta all’obiettivo di tenere il principale imputato fuori dai possibili processi: “Sts (Schmidheiny, ndr) – si legge in una nota spedita nel 2000 dalla Svizzera a Milano – non deve comparire mai, per nessuna ragione”. L’inchiesta prenderà il via soltanto nel 2004: “Schmidheiny aveva capito prima quello che io, purtroppo, ho inteso con anni di ritardo” è il commento di Raffaele Guariniello.
E proprio il procuratore aggiunto di Torino era particolarmente “attenzionato” dal sistema di intelligence della multinazionale: “informazioni riservatissime”, è stato detto in aula, contenute in dossier in cui si dava notizia di pubblicazioni su MicroMega e partecipazioni del magistrato a convegni “riconducibili ad associazioni ambientaliste”.
E lo “spionaggio” andava ben oltre Guariniello: “Abbiamo scoperto – ricorda Bruno Pesce – che una giornalista che ha frequentato le nostre iniziative per 16 anni era stipendiata da Bellodi, partecipava attivamente, faceva un sacco di domande, scriveva articoli sulla stampa locale. Io la consideravo una persona un po’ petulante, invece…”. Secondo la difesa degli imputati, che contesta l’ingerenza dei periti in materia riservata al pubblico ministero, i dossier non conterrebbero altro che “informazioni di dominio pubblico”. Dalla prossima udienza la parola passa a loro.
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