Luciano Lampugnani, del foro di Milano, secondo l'accusa aiutava i boss nella gestione del racket agli imprenditori. Chi si opponeva al clan doveva andare nel suo studio
Riciclaggio aggravato, tentata estorsione, produzione di documenti falsi. Tutto per favorire il racket della ‘ndrangheta. E Non solo. Ecco di cosa si occupava Luciano Lampugnani, avvocato del foro di Milano, 54 anni. Chi si opponeva ai clan Valle doveva andare a trovare lui, l’avvocato. Nelle 216 pagine dell’ordinanza di custodia cautelare firmata dal Gip Giuseppe Gennari, emerge la figura di “un professionista con una spregiudicatezza non comune e un’abitualità di frequentazione con ambienti criminali di elevato livello”. Il legale già nel 2004 aveva patteggiato una pena per usura. Allo stesso tempo, “un personaggio capace di trattare con esponenti della politica locale”. Come Davide Valia (non indagato), assessore del comune di Pero, presente nelle intercettazioni. Il politico, secndo i pm della Dda milanese, avrebbe favorito affari delle famiglie calabresi. Affari che però alla fine non sono andati in porto.
Tutto ha inizio il primo luglio scorso. Dopo un’indagine durata due anni, coordinata dal pm Ilda Boccassini, la squadra mobile di Milano arresta 15 presunti affiliati del clan Valle, legato alla cosca De Stefano. Il capobastone Francesco Valle, uomo di ‘ndrangheta emigrato al nord a metà degli anni Settanta, viene preso nel suo fortino dell’hinterland milanese, controllato 24 ore su 24 da decine di telecamere a vista. Villa Angelina, invece, ospitava il ristorante La Masseria di Cisliano, luogo di ritrovo per buona parte degli affiliati delle cosche lombarde. Si tratta di un’enorme tenuta con leoni, cavalli alati e persino la copia del cristo redentore di Rio de Janeiro, rigorosamente in marmo bianco.
Gli ultimi arresti adesso aprono un nuovo scenario nelle indagini sul clan Valle. Tra le 12 persone coinvolte nell’inchiesta di ieri, spicca la figura dell’ avvocato al servizio della ‘ndrangheta. Nel capo di imputazione si legge che Lampugnani “mediante minacce compiva atti idonei diretti in modo non equivoco per costringere B. A. (moglie di S.D.) a vendere una villa di sua proprietà (e con usufrutto a favore dei genitori) sita in Soverato Contrada Cuturella al fine di estinguere i debiti usurari che aveva contratto nei confronti”, degli uomini del clan. Annotano ancora i magistrati: “In tal modo tentava di cagionare danno a B. A. con profitto proprio e degli appartenenti al sodalizio criminoso. Non riusciva nell’intento per cause indipendenti dalla propria volontà, cioè per la ferma opposizione dei familiari della vittima”. Le minacce sarebbero consistite nel prospettare all’usurata che “sarebbe potuto accadere qualcosa di brutto al marito nel caso di mancata vendita della casa”. Il legale, secondo l’accusa, “preparava e faceva sottoscrivere a D. S. una falsa dichiarazione diretta a dare una parvenza di causale lecita all’emissione di un assegno a favore di Antonio Spagnuolo costituente profitto dell’usura, ostacolava l’identificazione della provenienza dal delitto”. Di qui l’accusa di riciclaggio.
Dalle intercettazioni emerge anche il ruolo di tramite che Lampugnani avrebbe svolto tra gli uomini del clan Valle e Davide Valia, assessore al comune di Pero. Il 18 e 19 dicembre 2008 “sull’utenza in uso a Fortunato Valle sono state registrate una serie di conversazioni dalle quali si evince come Davide Valia abbia utilizzato le sue conoscenze con amministratori locali del Comune di Spotorno per cercare di aiutare i Valle e i Mandelli ad intraprendere un affare, verosimilmente relativo al campo immobiliare, da avviare in quel comune”. Lo stesso politico locale è oggetto di un’altra conversazione tra l’avvocato e Angela Valle, figlia del boss Francesco Valle e moglie di Antonio Spagnuolo, intercettata l’11 maggio 2009. Il legale contatta Valle per fissare un appuntamento e riferisce di avere incontrato di persona l’assessore.
A incastrare Lampugnani è stata una cartella rossa trovata dalla squadra mobile nel corso della perquisizione nello studio. All’interno della carpetta c’erano copie di assegni delle vittime di usura e l’atto di compravendita della casa della Arcidiacono. “La prova documentale” del servizio svolto per le cosche, secondo il gip Gennari.
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