mercoledì 20 ottobre 2010

OBAMA HA GIÀ MOLTO DA PERDERE NELLE ELEZIONI DI MID-TERM


Gli Usa si sentono sempre più in crisi e vince l’antipolitica

di Furio Colombo

Barack Obama, il giovane senatore carismatico che è diventato il primo Presidente nero degli Stati Uniti e il primo Nobel per la Pace a cui è stato attribuito l’ambitissimo premio, mentre è ancora al comando di una guerra, si sta giocando tutto con le “elezioni di mezzo termine”. Queste elezioni, come tutti sanno, sono il capolavoro di una macchina costituzionale quasi perfetta. I Padri Fondatori, scrivendo la Costituzione americana, hanno visto e capito molto presto la natura di una società di massa allora appena nascente, hanno anticipato il carattere mutevole e il bisogno di sfogo e di protesta dell'opinione pubblica. E hanno stabilito che in quel Paese si voti sempre lo stesso giorno ogni quattro anni. Ma ogni due anni viene offerta agli elettori una possibilità di conferma o di ribaltone. Infatti nelle “elezioni di mezzo termine” si vota per rieleggere tutta la Camera (i deputati restano in carica solo due anni) e un terzo del Senato. E' l'occasione perfetta per dire sì o no al Presidente che sta governando. Nessun pericolo per la presidenza che – salvo dimissioni o “impeachment” (mettere sotto accusa il Presidente per ragioni gravissime) - resta stabilmente al suo posto per quattro anni. Ma gli elettori possono togliere al Presidente la maggioranza delle due Camere o di una di esse.

È ciò che potrebbe accadere (al momento i commentatori americani più credibili scrivono o dicono “sta per accadere”) al presidente Obama.

CIÒ CHE AVVIENE negli Usa segna un profondo cambiamento. Non della vita politica o non solo. Ma del modo di essere cittadini, del rapporto fra cittadini, del legame con le istituzioni, della accettazione delle consuetudini e delle regole. Sono accaduti eventi che potrebbero cambiare per sempre quel Paese. Il primo è lo sdoppiamento, un vero e proprio strappo, avvenuto (ma ancora in corso) sul versante dell'opposizione. L'opposizione è (era) il Partito repubblicano. Il suo candidato, moderato di destra, nelle elezioni presidenziali del 2008 è stato battuto dal Presidente Obama, democratico “di sinistra”, carismatico , nero, con un aggressivo programma sociale.

Tutte le caratteristiche qui elencate pesano e contano nelle prossime elezioni di novembre tanto quanto hanno pesato e contato nelle elezioni che hanno portato Obama alla Casa Bianca. Ma in senso opposto. Vediamo perché.

È ACCADUTO CHE il Partito repubblicano, che tradizionalmente non è maggioranza popolare negli Usa, ma è certo una rilevante parte di establishment e di classe dirigente, si è sdoppiato in modo brutale e drammatico. Ha fatto irruzione da destra un fiume di demagogia populista con tre caratteri inediti: nessuno dei suoi leader o star coincide con l'establishment repubblicano o con la guida di quel partito. Nessuno, delle nuove formazioni politiche ribelliste dette “Tea Party” accetta le regole tradizionali del rispetto per chi governa (“qualunque cosa tu pensi, c'è un solo presidente alla volta” si insegnava fin dalla scuola media negli Stati Uniti). Il compito, l'impegno, l'ideale di queste nuove formazioni politiche sorte dovunque e attive dovunque, è di tipo distruttivo, punta allo screditamento e al disprezzo del Presidente, qualunque sia la conseguenza, soprattutto internazionale, di un così accanito screditamento. Anzi, in questo nuovo tipo di organizzazione politica tutto è locale e niente è internazionale. Il mondo, in quanto non americano, non conta, tranne la guerra, che è vista come una resa dei conti interna al Paese. La vittoria cercata è qui e adesso. La vittoria, ovviamente, è isolare Obama, privandolo della maggioranza alla Camera (che decide sul bilancio) e al Senato (che decide sulla guerra).

Fanno luce su questo movimento, il Tea Party, che viene avanti con furia da destra, sostiene, se necessario, i candidati del Partito repubblicano ma non è il Partito repubblicano, sia il nome che il leader.

Il nome evoca la rivolta contro la monarchia inglese che portò, con la rivoluzione, alla nascita di un nuovo Paese (la rivolta contro una tassa sul tè nel porto di Boston).

La guida spetta a Sarah Palin, personaggio vistoso e di forte richiamo pubblicitario che, nella vita privata, ha brutti precedenti di prepotenza e violenza; e in quella pubblica non ha lasciato traccia, pur essendo stata governatore dell'Alaska e candidata repubblicana alla vice presidenza degli Stati Uniti.

Ai tempi del “ticket” con Mc-Cain Sarah Palin è stata certamente fattore importante della sconfitta repubblicana. Perché adesso sarebbe leader naturale di una vittoria (ed è probabile che lo sia)? Questo è il cuore della questione. Sarah Palin rappresenta il tentativo di cacciare i politici che contano e che hanno peso e hanno cultura personale e cultura politica. Palin è il simbolo del disprezzo, la rappresentazione di una beffa. Si va a prendere il potere con l'aiuto di tanta gente che precipita nel gioco. Non con il talento (che non c'è) ma con l'immagine da cartellone di varietà e rivista della Palin, per dire ben chiaro che altri governeranno. Chi? Certo, un anticipo di rivelazione è l'immenso afflusso di danaro, la montagna di dollari che si è subito formata accanto alla donna senza qualità mandata a sfidare il primo presidente intellettuale che l'America abbia mai avuto, il primo presidente – da molto tempo – legato alla causa del lavoro, delle fabbriche, dei più poveri, dei più deboli, il primo presidente Premio Nobel per la Pace, anche se non ha ancora fatto la pace, il primo presidente che ha, allo stesso tempo, salvato le banche e denunciato il loro malaffare.

LA GRANDE IDEA (forse vincente) è stata di usare una figurante contro un formidabile personaggio già insediato nella Storia degli Stati Uniti e del mondo. In tal modo si sposta l'attenzione verso il vero protagonista, l'immensità del danaro, la mano invisibile (ma non è quella di Adam Smith) che si prepara a bloccare o guidare il governo e a impedire iniziative sociali come la garanzia di cure mediche per tutti.

Resta per molti, negli Stati Uniti e dovunque, una domanda che si considera di buon gusto non sollevare: conta, contro Barack Obama, il fatto che Barack Obama sia nero, il primo nero alla guida degli Stati Uniti, della ricchezza americana, dell'esercito americano? A giudicare dalla mobilitazione così vasta, così priva di scrupoli, deliberatamente guidata da un personaggio inesistente, in una specie di carnevale cattivo fondato su una immensa quantità di danaro, conta.

1 commento:

LUIGI A. MORSELLO ha detto...

DAVVERO FACCIO FATICA A NON PROVARE DISGUSTO PER IL GENERE UMANO.