giovedì 28 ottobre 2010

Pd, il ricambio non può essere dolce


FEDERICO GEREMICCA

I modi sono quelli che sono: senz’altro ruvidi, bruschi, ai limiti della scortesia. Ed anche i toni non possono esser certo definiti rituali: spicci, diretti, sovente a un passo dall’offesa personale. E i modi e i toni - per l’appunto - sono i chiodi ai quali rischiano di «finir impiccati» Matteo Renzi, Pippo Civati e il cosiddetto gruppo dei «rottamatori», ormai in apertissima polemica con lo stato maggiore del Pd. Ma se «la rivoluzione non è un pranzo di gala» (citazione ben nota, si immagina, ad almeno mezzo gruppo dirigente pd...) nemmeno il rinnovamento lo è: motivo per il quale le obiezioni che si avanzano circa i modi e i toni dei «rottamatori», appaiono - più che altro - divagazioni non ricevibili.

A Renzi, a Civati e alla folla di giovani (e meno giovani) che tra una settimana si riuniranno a Firenze, il gruppo dirigente del Pd dovrebbe - in verità - delle risposte nel merito delle questioni poste: che non sono, poi, chissà che.

Sollecitano un rinnovamento vero al vertice del partito: ed è difficile - in un Paese nel quale è invocazione quotidiana la richiesta di un ricambio delle classe dirigenti a tutti i livelli - considerare questa domanda alla stregua di una provocazione. E spingono affinché vengano rispettate - ma stavolta davvero - le regole che il Pd stesso si è dato due anni fa: per esempio, il limite dei tre mandati parlamentari, norma di fatto vanificata dalla gran quantità di eccezioni.

Modi e toni, dicevamo, sono quel che sono: ma non si ricordano, in verità, rinnovamenti «dolci», operazioni di ricambio nelle quali chi deve lasciare il posto (e il potere) offre con cortesia la propria poltrona a chi deve subentrare. Esistono rinnovamenti pilotati, questo sì: ed è un po’ la via, in fondo, che tentò Veltroni dopo la fondazione del Pd. Ma il confine tra rinnovamento pilotato e cooptazione è spesso labile: e comunque, se la questione è di nuovo d’attualità, vuol dire che qualcosa non funzionò prima, durante o dopo la messa in campo dei vari Calearo e Madìa, Sassoli o Serracchiani, per dirne solo alcuni.

E tanto non funzionò, che divenne un caso il rumoroso abbandono di Irene Tinagli (giovane ricercatrice all’epoca «emigrata» a Pittsburgh) voluta da Veltroni addirittura nel Coordinamento nazionale del Pd. Dopo non molti mesi la nomina, si dimise con una lettera intrisa di rabbia e delusione: «Mi chiedo se era necessario fare tanto chiasso sul ricambio generazionale quando basta guardare chi sta ancora in cabina di regia per capire che, in fondo, non è cambiato niente». La lettera è di due anni fa e molta acqua è passata sotto i ponti: a Veltroni sono succeduti prima Franceschini e poi Bersani, la crisi di consenso del Pd si è acuita e la questione del ricambio torna bruscamente in primo piano. Ma stavolta meno controllabile che mai.

Viene da chiedersi se, al punto cui si è giunti, il tema del rinnovamento (un rinnovamento non necessariamente legato all’età) non sia - per il Pd - addirittura una opportunità. E invece, sarà per i toni, sarà per i modi, ma Pier Luigi Bersani non ha preso affatto bene la scesa in campo dei «rottamatori». Anzi, l’ha presa così male da convocare a Roma, proprio nei giorni del «raduno» fiorentino i dirigenti di tutti i circoli Pd d’Italia. La mossa è stata intesa come il tentativo di depotenziare l’iniziativa di Renzi e Civati: può esser che sia così, ma non è detto. E comunque non è questo l’importante. Quel che sorprende, trattandosi di Bersani - uno che «uomo nuovo», in fondo, a modo suo lo è - è che al segretario del Pd non sia venuta voglia di fare un salto a Firenze per ascoltare le ragioni ed i propositi di un pezzo di «popolo Pd» ormai a un passo dalla libera uscita. A parte l’impatto politico e mediatico della scelta, ne avrebbe forse tratto stimoli e intuizioni probabilmente non inutili in una fase di perdurante difficoltà. Sarebbe bastato (basterebbe) una sola mattinata; anche solo mezzo pomeriggio. Il segnale sarebbe stato (sarebbe) assai importante e forte: la prova, tra l’altro, che il «vecchio» non solo non è indifferente ma non ha paura del «nuovo». Al «raduno» fiorentino manca ancora una settimana: c’è tempo per riflettere, ragionare e magari - perché no? - perfino cambiare idea...

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