Non so se andremo a nuove elezioni presto, ad esempio il 27 marzo 2011, come ipotizzano in molti.
Però mi pare improbabile, molto improbabile, che la legislatura duri fino al suo termine naturale, nella primavera del 2013.
E questo a prescindere da come andrà a finire il B-day (14 dicembre), ovvero il giorno in cui, su Silvio Berlusconi e il suo governo, si pronunceranno sia
L’attuale impossibilità di governare, infatti, sembra destinata a perpetuarsi quale che sia l’esito di quel voto: se Berlusconi dovesse essere sfiduciato potrebbe sopravvivere solo imbarcando Fini e/o Casini, con conseguente abbandono del punto più importante del programma di governo (il federalismo); se viceversa dovesse ottenere la fiducia, la situazione sarebbe ancora più precaria.
Perché il margine di voti in Parlamento sarebbe così piccolo e incerto da precipitarci in una nuova era Prodi, fatta di piccole manovre politiche e sostanziale paralisi.
Meglio nuove elezioni, dunque?
Non è detto, purtroppo. Il mero fatto di interrompere anticipatamente la legislatura potrebbe esserci fatale, perché nei molti mesi che intercorrerebbero fra la caduta di Berlusconi e l’insediamento del suo successore i mercati finanziari potrebbero disfare in poche settimane l’opera di tamponamento pazientemente compiuta da Tremonti in questi due anni. Un’opera su cui si possono avere opinioni diverse, ma che comunque ha finora permesso all’Italia di stare al riparo dalla speculazione internazionale, evitando una lievitazione del costo del debito pubblico.
Ma supponiamo per un attimo che un simile pericolo non esista e che, miracolosamente, l’Italia si possa permettere il lusso di affrontare i prossimi sei mesi in uno stato di apnea, in attesa che il ritorno alle urne ci restituisca un governo nuovo di zecca. Che cosa ci garantisce che, una volta tornati a galla dopo il voto, avremmo un tale governo?
Gli esperti di cose elettorali concordano almeno su una cosa: né il centro-destra né il centro-sinistra potrebbero ottenere la maggioranza dei seggi sia alla Camera sia al Senato. E questo, è importante sottolinearlo, non perché la legge elettorale è «una porcata» (come molti amano ripetere) ma, paradossalmente, perché non lo è abbastanza. La presenza del premio di maggioranza nazionale alla Camera rende la legge iniqua (si può avere il 55% dei seggi con il 35% dei voti), ma la sua assenza al Senato tende a produrre ingovernabilità, perché nessun meccanismo assicura che chi ottiene la maggioranza dei seggi alla Camera possa averla anche al Senato.
Se ne potrebbe concludere che il problema è la legge elettorale, e che dunque la soluzione è vararne una nuova. Ma non è così. La legge elettorale è un problema, se non altro perché allontana (comprensibilmente) i cittadini dalla vita politica. Ma non è il problema, perché nessuna legge elettorale può darci, nella stagione di tramonto del berlusconismo, quello di cui avremmo davvero bisogno. E cioè un’alternativa politica e culturale al berlusconismo stesso. Potrà sembrare strano dire quel che sto per dire, ma le vicende di questi mesi ci mostrano invariabilmente due tendenze apparentemente inconciliabili: la mesta fine del berlusconismo e l’appannamento di qualsiasi credibile alternativa ad esso. E, quel che è ancora più strano, ci mostrano inquietanti somiglianze fra i due modi dell’antiberlusconismo, quello di destra (guidato da Fini) e quello di sinistra (guidato da Bersani).
Entrambi oscillano fra il piccolissimo cabotaggio delle imboscate parlamentari, delle formule astratte, dei segnali in codice, e il demagogico sostegno alle proteste di piazza. Basta leggere le cronache di questi mesi per misurare in tutta la sua drammaticità l’assenza di una vera classe dirigente. Mentre tutta l’Europa si chiede come salvare l’euro, come evitare una nuova tempesta finanziaria, come tornare a crescere in una situazione in cui le risorse stanno diminuendo per tutti, i politici che aspirano a prendere il posto di Berlusconi si rivelano ancora più berlusconiani di lui. Anziché trovare il coraggio di dire agli italiani quanto è drammatica la situazione in cui versa l’Europa, e quanto sia stato irresponsabile da parte di Berlusconi minimizzare la gravità dei nostri mali, preferiscono cavalcare l’onda della protesta, sui tetti delle facoltà occupate, nelle piazze, sui giornali, nelle trasmissioni televisive. Come se oggi, in Italia, ci fossero le risorse per soddisfare le più che comprensibili richieste di tutti. Come se oggi, in Italia, non vi fosse innanzitutto un drammatico problema di dissipazione delle risorse pubbliche, dagli ospedali alle università, dalla giustizia alle (false) pensioni di invalidità.
Una deriva demagogica che, probabilmente, è inevitabile per gli uomini di Fini, il cui primo problema è esistere, non sparire dalla scena della politica. Ma che non è affatto obbligata per la sinistra, che esiste da sempre, e semmai ha un altro problema, quello di offrire al Paese un’alternativa per il dopo-Berlusconi. Qui davvero non capisco. Come è possibile che, in presenza della più grave crisi del berlusconismo, i dirigenti del Partito democratico passino il loro tempo a baloccarsi con riti identitari e ad almanaccare sulla politica delle alleanze, quando la domanda che gli elettori si fanno è una sola: ma voi, se andaste al governo, che cosa sareste in grado di fare di diverso e di meglio di quel che offre l’attuale governo?
Una domanda che ha sotto di sé tante altre domande, tanti altri dubbi. Qual è la vostra idea del futuro dell’Italia? Come pensate di far ripartire la crescita? Avete qualcosa di concreto da dire anche ai cittadini del Nord? Smonterete o manterrete quel poco di federalismo che ha messo in piedi
Finché Bersani non proverà a rispondere a queste domande, e per rispondere intendo rispondere sul serio, senza battute e formule vuote, non potremo che continuare ad osservare ciò che da un anno a questa parte osserviamo: che il partito di Berlusconi perde inesorabilmente consensi, ma nessuno di essi si dirige verso il partito di Bersani.
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