venerdì 26 novembre 2010

Secessione silenziosa


Il copyright è dell’ex governatore Riccardo Illy che per primo parlò di «secessione dolce», di un processo lento e graduale di separazione, prima psicologica e poi politica. Illy si riferiva al sentimento delle popolazioni del Nord verso i destini del Paese, ma il suo ossimoro calza a pennello oggi per descrivere lo stato d’animo degli imprenditori italiani di fronte all’incancrenirsi della crisi politica. L’anticipo di federalismo richiesto da Emma Marcegaglia, al di là della valutazione tecnica sulla bontà e lo stato di avanzamento della legge 42, ha questa valenza. È la presa d’atto della divaricazione tra gli interessi e le aspettative del mondo delle imprese e le preoccupazioni/ priorità coltivate dai professionisti della politica. Sarà un caso, ma oggi il tavolo della concertazione non si riunisce nel palazzo del governo bensì nella sede dell’Associazione bancaria. Nessun politologo avrebbe mai immaginato un’analoga forma di secessione indolore.

Imprenditori e politici hanno, dunque, due agende qualitativamente diverse. In quella di chi si sforza di produrre ricchezza e occasioni di lavoro spiccano le inquietudini sul futuro di Eurolandia. Con tutti i faticosi adattamenti che la moneta unica ha richiesto — non ultimo compensare il rapporto squilibrato con il dollaro debole — le imprese sono coscienti che senza euro resteremmo disancorati, saremmo in balia delle nostre contraddizioni e pigrizie. C’è nel milieu politico sufficiente consapevolezza di questi rischi? Oppure prevale il batticuore per la scelta definitiva che farà in Parlamento uno dei rappresentanti degli italiani all’estero? È chiaro che l’export resta la carta più importante che possiamo giocarci per uscire dalla crisi, per entrare nei mercati emergenti, quelli che promettono di crescere di più. Ma nell’agenda politica di questa priorità non v’è traccia. Nei giorni scorsi il ministro Giulio Tremonti ha definito «folkloristiche» le nostre strutture di promozione all’estero. È da maleducati chiedere ai partiti della maggioranza di sospendere per un momento la compravendita di deputati e/o senatori e decidere cosa vogliamo fare dell’Ice e delle sue sette sorelle? O aspettiamo che tutti, proprio tutti, i nostri concorrenti abbiano nel frattempo conquistato le loro brave quote di mercato in India, Cina, Brasile e Sudafrica?

Parliamo, infine, della domanda interna. La maggior parte delle piccole imprese, che non hanno massa critica e muscoli per andare all’estero, opera sul mercato nazionale e non intravede alcuna prospettiva di crescita. Qualche calcolo, pur approssimativo, ci porta a dire che avremo uno stock di circa 13 milioni di famiglie con un reddito disponibile attorno ai 1.500 euro o poco più. I riflessi in termini di politiche sociali sono più che evidenti, mentre per le aziende italiane il rischio è chiudere per mancanza di clienti o essere stroncate dalla concorrenza sleale che si nutre di contraffazione e illegalità. Anche questo tema, purtroppo, resta fuori dall’agenda della politica e così il sentimento di estraneità si fa più forte. La secessione, a questo punto, può anche cambiar sapore, diventare più aspra. Non ci vuole molto, si chiude in Italia e si riapre al di là del confine. Nel Canton Ticino, in Carinzia o in Slovenia.

Dario Di Vico
25 novembre 2010

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