STEFANO LEPRI
A settant’anni e qualche mese, nel pieno delle sue energie intellettuali, un arresto cardiaco ieri sera ha portato via Tommaso Padoa Schioppa, uno dei più europei tra gli italiani. Erano davvero in tanti a cercare il contributo delle sue idee: al momento era consigliere del governo greco, presidente del centro studi parigino “Notre Europe”, membro del “Gruppo dei
Economista di formazione, ma di vasta cultura letteraria, era un personaggio di un formato difficile da ritrovare nelle generazioni seguenti. Ha saputo svolgere incarichi molto diversi senza portare nell’uno le ambizioni dell’altro. Liberista ma lontano dagli «adoratori del mercato» di scuola americana che avevano prevalso negli anni prima della crisi, attento al rigore della moneta e dei bilanci pubblici ma senza le rigidezze dogmatiche dei tedeschi, sicuro di sé nel parlare di doveri e di senso dello Stato, è stato un bersaglio facile per i populisti sia della destra sia dell’estrema sinistra; lo sapeva e quasi quasi ci si divertiva.
Laureato alla Bocconi e poi al Mit di Boston, si era formato alla Banca d’Italia, da cui era passato nel 1979 alla Comunità europea per poi tornarvi e salire fino alla vicedirezione generale. Una vecchia foto su un libro che narra la storia della Banca d’Italia lo ritrae giovane serio e per nulla intimidito accanto a Guido Carli. Quando Carlo Azeglio Ciampi si dimise da governatore per assumere la presidenza del consiglio dei ministri, l’avrebbe voluto come suo successore; ma l’allora capo dello Stato Oscar Luigi Scalfaro gli preferì Antonio Fazio, più rassicurante per il mondo cattolico.
Alla nascita della Banca centrale europea, nel 1998, fu scelto per quel posto tra i sei del comitato esecutivo che, per prassi, tocca all’Italia; e lì, allora, si confrontava da amico con il membro designato dalla Germania Otmar Issing, («e qualche volta a sostenere le posizioni più dure ero io», ricordava). Così nella primavera scorsa l’aveva addolorato molto che Issing, con altri tedeschi, volesse abbandonare
Poco dopo che era terminato l’incarico alla Bce, Romano Prodi lo contattò per offrirgli il ministero dell’Economia, nel caso il centro-sinistra avesse vinto le elezioni del 2006. Lui disse di sì e volle tener fede alla parola data pur se, visti i risultati, un governo con una maggioranza di due voti non era adatto a un ministro tecnico quale lui si sentiva. Si impegnò per risanare i conti pubblici, sballottato tra le mille mediazioni politiche di una coalizione frammentatissima e discorde; i numeri mostrano che solo nei suoi due anni la curva della spesa pubblica corrente aveva frenato la sua corsa verso l’alto. Ma la vinaigrette, come lui la chiamava, ovvero la mescolanza di olio e di aceto che lui usava come metafora dell’incontro fra le sue idee e quelle di Fausto Bertinotti, non restò stabile a lungo, come si sa.
Molto critico sulle condizioni in cui Giulio Tremonti gli aveva lasciato i conti pubblici nel 2006, aveva invece voluto riconoscere una «continuità» di rigore e controllo della spesa nelle scelte che lo stesso Tremonti ha fatto dopo il 2008. Non aveva mai commentato, invece, la presa di distanza dalla politica del rigore che è prevalsa nel centro-sinistra all’opposizione. Ma non ce n’era bisogno. E guarda caso proprio negli ultimi giorni due delle figure emergenti in quella parte politica, il sindaco di Firenze Matteo Renzi e il presidente della Puglia Nichi Vendola, sia pur con umori diversissimi proprio da Padoa-Schioppa hanno voluto prendere le distanze: Renzi rimproverandogli l’aver inneggiato al dovere di pagare le tasse, Vendola accusandolo di liberismo. Ed è forse questa un’altra prova di quella profondissima crisi in cui, nel suo ultimo articolo, vedeva immergersi l’Italia.
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