UN TEAM DI 30 GIORNALISTI COORDINA LE “FUORIUSCITE” DEL PAÌS
di Alessandro Oppes
In Europa è il primo pomeriggio del 12 novembre, un venerdì, quando i 7 corrispondenti di El País nelle principali capitali ricevono una strana telefonata dalla redazione centrale. Si devono presentare il lunedì mattina successivo a Madrid. Ordini superiori. Nessun dettaglio sul motivo della convocazione. Dalla segreteria del giornale, solo un suggerimento: quello di portare con sé un bagaglio corposo, perché la loro permanenza in Spagna potrebbe protrarsi a lungo. La sorpresa è grande, le perplessità anche, soprattutto per chi viene da più lontano, come Sol Gallego, corrispondente da Buenos Aires, Antonio Caño, da Washington, o Pablo Ordaz, da Città del Messico.
La mattina del 15, quando superano la porta d’ingresso del quotidiano, nella Calle Miguel Yuste, alla periferia di Madrid, nessuno di loro può immaginare la quantità di ore che dovranno trascorrere là dentro nelle due settimane successive. Avranno solo il tempo di uscire, a tarda notte, per andare a casa, o in albergo, a riposare. E poi di nuovo al giornale, dalla mattina presto, per immergersi nella più inconsueta delle avventure professionali della loro lunga carriera.
APPENA ENTRANO in redazione, in quella piovosa giornata del 15 novembre, vengono indirizzati verso una grande sala allestita per l’occasione con una trentina di computer. Ad attenderli c’è il direttore, Javier Moreno, tutto lo staff dirigente del quotidiano, e alcune delle firme più prestigiose di El País, esperti in giornalismo investigativo, inviati di politica interna ed estera. È la squadra selezionata per spulciare, leggere, analizzare, dare un senso compiuto alla più sterminata mole di materiale scottante che sia mai capitata tra le mani di una redazione giornalistica. È lo “scoop degli scoop” che sta per prendere corpo.
Moreno va subito al sodo. El País è l’unico quotidiano spagnolo, e uno dei cinque al mondo, a essere stato scelto da Julian Assange come “terminale” a cui verranno riversati i 250 mila documenti del Cablegate.
Che Wikileaks stesse preparando il colpo del secolo, era una voce che circolava da mesi. Ma nessuno sapeva quando sarebbe partita l’operazione, e men che meno quali ne fossero i contenuti. In quel momento i 30 reporter riuniti nel “bunker” di Madrid si rendono conto che stanno per diventare protagonisti di un evento che sta per cambiare la storia del giornalismo.
SOLO LORO, e nessun altro: i colleghi di El País che osservano dall’esterno quella sala, non hanno idea di cosa si stia cucinando là dentro. L’ordine è di mantenere il segreto. Tanto che viene inventata una bugia pietosa: starebbero lavorando alla creazione d’un nuovo sito Internet. In redazione c’è chi sospetta che si tratti d’altro, persino che l’azienda stia meditando una riorganizzazione del lavoro, forse un’ondata di licenziamenti.
La realtà è che, dopo una serie di incontri segreti a Londra, con Assange e i suoi collaboratori, la direzione del quotidiano aveva messo a segno il grande colpo. Nelle settimane precedenti, c’erano già riusciti The Guardian e in seguito il New York Times, poi era stata la volta di Der Spiegel. Infine, quasi nelle stesse ore, Le Monde ed El País, mentre andavano a vuoto le trattative di Wikileaks con altre testate. Decisivo l’incontro con Assange ottenuto dall’inviato del giornale madrileno Joseba Elola nella capitale britannica il 18 ottobre, dopo 3 mesi di snervante negoziato (ma non si hanno conferme di pagamenti), e riportato con grande risalto la domenica successiva con il titolo “Appuntamento segreto con l’uomo che fa tremare il Pentagono”.
Lo staff del País si mette al lavoro. I cables sono accessibili solo all’interno di quella stanza-bunker superprotetta, messi a disposizione da Wikileaks in un server criptato dal quale ognuno dei 5 giornali può attingere. Si comincia dai 15 grandi temi concordati con le altre testate, poi se ne sviluppano altri: tutto ciò che riguarda l’America Latina e
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