venerdì 17 dicembre 2010

Il paese “malato” che non cresce più


STEFANO FELTRI

Confindustria vede il declino: 1% la crescita del Pil nel 2010, -540mila i posti persi dal primo trimestre del 2008, 600mila i lavoratori in cassa integrazione, 43,5% la pressione fiscale nel 2009 con l'Italia terzo paese Ocse dietro a Danimarca e Svezia

Due giudizi in due giorni, due sentenze in apparenza capitali sulla paralisi dell’Italia che non riesce a sconfiggere “la malattia della lenta crescita”. Così descrive il Paese il centro studi di Confindustria in un rapporto presentato ieri dove si spiega che l’Italia sta anche peggio di come pensavamo: la crescita nel 2010 sarà soltanto dell’uno per cento, prevedono gli economisti confindustriali.

Anche gli zero-virgola contano in questo momento, con i mercati finanziari e la Commissione europea sempre molto attenti alla capacità di un Paese di sostenere il proprio debito (quello dell’Italia continua a crescere e si avvia a toccare il 120 per cento del Pil). “L’Italia, ancora una volta, rimane indietro, replicando la cattiva performance che ha manifestato dal 1997 in avanti. Aumenta il conto delle riforme mancate o incomplete o inadeguate rispetto a quanto realizzato dai partner concorrenti. Il confronto con la Germania è impietoso”, si legge nel documento di Confindustria. Certo, a queste osservazioni si può sempre replicare che gli imprenditori tendono sempre a denunciare i problemi del sistema come se le aziende non ne facessero parte e non avessero responsabilità alcuna nelle scarse prestazioni dell’economia. Ma non elimina il problema. Specie se lo si misura con un indicatore a cui gli imprenditori, e non solo, sono particolarmente sensibili. Due giorni fa l’Ocse, il centro studi dei Paesi più ricchi, ha comunicato che l’Italia è al terzo posto nella classifica della pressione fiscale: 43,5 per cento nel 2009. Nel 2008, quando il centrodestra che promette la riforma fiscale dal 1994, era il 43,3 per cento. La pressione fiscale si misura come rapporto tra le entrate tributarie e il Pil. É una misura di quanta parte della ricchezza prodotta in un anno viene presa dallo Stato e dagli enti locali.

Si può discutere se il 43,5 per cento sia troppo o troppo poco (in Danimarca e Svezia è più alta), ma se la pressione fiscale peggiora mentre al governo c’è una maggioranza che vorrebbe ridurla, significa che qualcosa non va. “Ma ora è il momento di tagliare le tasse” titolava ieri in prima pagina Il Giornale, come fa circa ogni sei mesi (idem Libero), richiamando il governo alla sua (presunta) matrice liberista. Ma la pressione fiscale dipende, oltre che dalla quantità di tasse, dall’ammontare del Pil. E se questo crolla, come è successo nel 2009 (-5 per cento), o continua ad arrancare, la pressione fiscale non può certo calare. A meno di ridurre le entrate (cosa che purtroppo, secondo la Banca d’Italia, sta succedendo sia per la crisi che per l’evasione) a parità di Pil. Cose che un Paese con il debito come il nostro non può permettersi. “Il guaio vero è che no c’è niente che faccia crescere l’Italia dalla mattina alla sera. Temo purtroppo che stiamo grattando il fondo del barile. Il mercato del lavoro andrebbe stravolto, l’età pensionabile drasticamente aumentata per ridurre i contributi che pesano sul costo del lavoro, sostituire la cassa integrazione con assicurazioni normali. Ma ormai qualsiasi evoluzione in Italia sembra rivoluzionaria”, commenta Michele Boldrin, economista che insegna negli Stati Uniti, alla Washington University in St Louis.

Come per certe dipendenze patologiche tipo l’alcolismo, il primo passaggio dovrebbe essere la presa di consapevolezza del problema. Confindustria, o almeno il suo centro studi, è cosciente del guaio: “La frenata estiva e autunnale è stata decisamente più netta dell’atteso e il 2010 si chiude con produzione industriale e Pil quasi stagnanti”. Il governo, però, che adesso avrebbe la possibilità (forse) di intervenire, la pensa molto diversamente: “Non vedo elementi così negativi. C’è la lentezza del sistema italiano a rimettersi in moto”, è la diagnosi di Paolo Romani, che da ministro dello Sviluppo è quello che più dovrebbe occuparsi di far crescere uno dei due parametri della pressione fiscale (il Pil, l’altro, le tasse, sono di competenza di Giulio Tremonti al Tesoro). Il ministro del Welfare Maurizio Sacconi si rifiuta perfino di commentare. Finora l’esecutivo traduce questo ottimismo facendo stime sempre al rialzo nei documenti ufficiali di politica economica, l’ultimo caso nella Decisione di Finanza Pubblica. Quando poi le deve adeguare alla realtà, arrivano i tagli.

Da Il Fatto Quotidiano del 17 dicembre 2010

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