Il Natale — quella nascita e quella notte che tagliano
Quando Maria riceve l’annuncio della sua maternità, non sa ancora quale sarà l’atteggiamento di Giuseppe ed è decisa ad affrontare tutte le conseguenze della sua accettazione, anche il disonore e la vergogna che marchiano una ragazza madre; è pronta ad assumere sulle sue spalle l’infame peso della colpa e dell’emarginazione iniquamente messo in carico soltanto alla donna. Maria, che nella sua solitudine dice sì, è una donna, non quell’idolo di gesso o quel fantasma in cui più tardi una superstizione idolatrica degraderà spesso la sua immagine. Il suo compagno si comporterà come un vero uomo, virile e libero da tutte le prepotenze, convenzioni e insicurezze maschili; anche per questo si attirerà le pacchiane barzellette di tanti cretini, così frequenti fra i narratori di barzellette.
In quella capanna di Betlemme ci sono un figlio, una madre e un padre. Non c’è, per loro fortuna — è giusto che il figlio di Dio si sia concesso almeno questo privilegio—la consueta torma di suocere, zii, terzi cugini, suoceri di cognate, un clan talora caldamente protettivo ma spesso asfissiante e invadente, quelle tante donne Prassede, di cui esistono altrettante e altrettanto micidiali versioni maschili, che in nome della Provvidenza— di cui si considerano gli unici interpreti autorizzati —guastano la festa al loro prossimo in generale e soprattutto a chi hanno sottomano.
A quella capanna, a festeggiare il neonato, non arriva alcun parentado, arrivano alcuni pastori. Sono loro, in quel momento, la famiglia di quel bambino. Anche da adulto egli ribadirà, pure con durezza, il primato dei legami nati da libera scelta e affinità spirituali su quelli di sangue, dicendo che i suoi fratelli e le sue sorelle sono coloro che ascoltano e condividono la sua parola e chiedendo perfino bruscamente alla madre, dinanzi a una sua interferenza, cosa vi sia fra loro due. Dopo i pastori arriveranno, secondo la tradizione, i Magi, seguaci e maestri di un’alta religione—quella di Zoroastro, la prima a proclamare l’immortalità dell’anima individuale. Quella capanna è un tempio di tre grandi religioni mondiali; la quarta, che arriverà secoli dopo, l’Islam, si richiamerà ad esse e soprattutto alla prima, quella ebraica.
Pastori e più tardi Magi restano davanti alla capanna; dentro ci sono, a riscaldare il bambino col loro fiato, un bue e un asino, a testimoniare che anche per gli animali, per questi nostri oscuri cugini, dovrebbe esserci salvezza, come ben sa quel personaggio di un racconto di Singer che recita il Kaddish, la preghiera ebraica per i defunti, per una farfalla morta e come sapeva, nel poema sacro indiano Mahabharata, il re Iudistira che rifiuta di accedere al paradiso abbandonando il fedele cane all’inferno.
Quel bambino non è venuto a fondare una nuova religione, di cui non c’era bisogno perché ce n’erano già forse troppe. È venuto a cambiare la vita, cosa ben più importante di ogni Chiesa. Indubbiamente la promessa di pace, annunciata in quella notte, è stata e continua ad essere clamorosamente smentita. È difficile dire se, in questo senso, quel neonato abbia finora vinto o perso la sua partita. Ma è indubbio che egli abbia posto per sempre, nel nostro cuore, nella nostra mente e nelle nostre vene, l’esigenza insopprimibile di quella salvezza. L’albero di Natale col suo verde scuro di foresta, le sue candele e i suoi globi colorati (sul mio ce n’è ancora uno proveniente dalle favolose vetrerie di Norimberga, che adornava quello di mia madre quando era bambina) non dice un’idillica quiete domestica, ma una speranza sinora delusa. Ma proprio perché nel mondo c’è tanta sofferenza e ingiustizia e il male così spesso trionfa, ammoniva Kant, è necessaria l’accanita e lucida speranza, che vede quanto sciaguratamente vanno le cose ma si rifiuta di credere che non possano andare altrimenti.
Pure quel bambino di Betlemme è nato per morire. Morirà anzi presto e fra angoscia e tormento, che la resurrezione non cancella in alcun facile lieto fine. Gesù ha scelto la morte perché, pur amando la vita, sapeva che essa non è il bene supremo e che talora si può essere chiamati a perderla per amore degli altri. Ama il prossimo tuo come te stesso, sta scritto. Dunque il nostro prossimo sono gli altri ma siamo anche noi ed è lecito, anzi doveroso amare noi stessi e lenire le nostre sofferenze insieme a quelle altrui. Ogni compiaciuta mortificazione viene dal Maligno. C’è un diritto di nascere, di cui si parla poco, e c’è un diritto di morire, di cui si parla molto. Per quel che mi riguarda, faccio mia la dichiarazione congiunta della conferenza delle Chiese cattolica e protestante tedesche sul diritto—rivendicato però dall’interessato e soltanto da lui — di sospendere, in determinate condizioni inaccettabili, cure a quel punto inutilmente accanite. Un uomo che ha fede, ha scritto il teologo Wiener Thiede, non artiglia spasmodicamente quel pezzetto di vita che gli è stato assegnato; le sue mani, non contratte dall’ansia, possono aprirsi e lasciare la presa.
È la libertà — del cristianesimo, ma anche della grande classicità pagana, serenamente inserita nel ciclo della natura—che fa dell’uomo un viandante, un nomade senza fissa dimora e non un sedentario nella vita. Ma spesso si sente dire — con un’espressione infelice e involontariamente rivelatrice — non che l’uomo è libero, ma che è il proprietario della sua vita, declassando così il sacro diritto di morire ad una delle tante e sempre più frequenti leggine ad personam, in difesa dell’uno o dell’altro monopolio di cui si vuol godere. Si può essere proprietari soltanto di cose, di cui si può disporre a piacimento. Non si può essere proprietari di persone, perché in tal caso si è padroni di schiavi e dunque pure schiavi, giacché ogni padrone di uomini perde ogni rapporto con la libertà: «Mi me credevo — Un omo lìbero / E sento nascere — in mi el paron », dice un verso del grande Noventa. Poco importa se lo schiavo di cui siamo proprietari reca il nostro nome: in questo caso trattiamo noi stessi da schiavi, cosa forse ancor più umiliante.
Il proprietario dispone delle cose che possiede; posseggo un’automobile e posso venderla o demolirla a mio arbitrio, essa è in mio potere. Ma il mio io — i miei pensieri, sentimenti, sogni, timori — è in mio potere, come la mia automobile? Posso ordinarmi di innamorarmi, di credere in Dio, di cambiare fede politica, di capire la meccanica quantistica? Ogni io è tutt’al più un condominio, costituito come tutti i condomîni da vicini litigiosi; forse ogni io non è neanche questo, bensì piuttosto un agglomerato di inquilini provvisori che nemmeno posseggono le due camere e cucina e il riscaldamento centrale per cui litigano. Quando ci innamoriamo, votiamo, preghiamo, lavoriamo, ci divertiamo, possiamo e dobbiamo cercare di essere liberi nel nostro agire, ma senza alcuna presunzione di essere proprietari della vita, neanche della nostra, perché in quel caso saremmo come quei padroni delle commedie, cui i servi rubano tutto sotto il naso. Anche il diritto di morire può affidarsi solo alla libertà e al senso del sacro, non all’arroganza di un inesistente padronato di se stessi. La vita è sempre sacra, quando la si riceve e quando la si restituisce. Anche quando la si toglie, come tragicamente può accadere — ad esempio in guerre in cui può sciaguratamente ma inevitabilmente capitare di trovarsi, in una Stalingrado o in una Normandia in cui non si è potuto fare a meno di sparare per impedire che il mondo diventasse Auschwitz.
Sotto l’albero di Natale ci si aspetta di trovare dei doni, ogni anno sempre più mestamente aggiornati alla nostra età e meno fantasiosi dei giocattoli d’infanzia, che un mio zio inventava e fabbricava con le sue mani. È possibile fare una lista di regali desiderati, come si usa per quelli di nozze? In questo caso, cosa chiedere, dato che comunque sarebbe svergognato chiedere di essere felici, come se due sposi chiedessero non un servizio di bicchieri o una lavatrice, ma una grande villa con parco? Forse è presuntuoso chiedere l’amore, anche se è per questo che è venuto quel bambino. Se ci guardiamo in giro e allo specchio, gli orrori la mediocrità l’aridità e la viltà che vediamo scoraggia dal pretendere l’amore che ci manca. Pretendere di renderci capaci di amare è come pretendere di renderci capaci di comporre la musica di Mozart.
Se l’amore è una grazia troppo alta possiamo chiedere almeno un’altra virtù fondamentale, il rispetto, che per Kant è la premessa di ogni altra virtù e che sembra sempre più latitante. Se non possiamo amare la folla oscura come noi che entra nella metropolitana, possiamo sentire concretamente che ognuno di quelli sconosciuti ha gli stessi nostri diritti e la stessa nostra povera dignità. Rispetto per ognuno, anche per l’avversario e per il nemico, anche per chi crediamo di dover combattere duramente, anche per chi va giustamente e pure pesantemente punito per un reato commesso. È questo rispetto, nient’affatto incompatibile con la severità, che manca sempre più, ovunque: nella lotta politica, nella violazione di ogni intimità, nell’arrogante negazione dell’altro.
Non chiediamo di essere perfetti, ma almeno di non essere crudeli e indecenti; di vivere in un mondo in cui si perseguono inesorabilmente i crimini ma si riconosce anche nel volto del criminale giustamente punito senza indulgenza il volto del Cristo o più semplicemente dell’uomo; in cui nessun colpevole—terrorista, pedofilo, mafioso, stupratore, assassino — venga trattato ignominiosamente come ad esempio quel sacerdote, verosimilmente pedofilo e dunque da punire, che si è gettato sotto il treno dopo essere stato insidiato da un falso penitente—inviato da una petulante trasmissione televisiva pretesamente spiritosa—che, in confessione, si è finto tentato dall’omosessualità per adescarlo e scoprirlo, colpendolo in un punto colpevole, debole e tormentato della sua personalità. Vorremmo chiedere, quale dono di Natale, che persone come quel sacerdote finiscano in carcere, se viene appurato un loro crimine, ma non sotto un treno. Una trasmissione televisiva non può diventare un plotone d’esecuzione.
Sotto l’albero di Natale, davanti al Presepe ci sono anche innumerevoli storie terribili, perché quel bambino è venuto a redimere il mondo ed è ovvio che abbia a che fare soprattutto con le sue brutture. Lava ciò che è sordido, piega ciò che è rigido, dice uno dei più grandi inni cristiani.
Claudio Magris
24 dicembre 2010
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