domenica 23 gennaio 2011

Una sentenza costruita nella legalità


FRANCESCO LA LICATA

La vicenda giudiziaria di Cuffaro rappresenta qualcosa di unico nella storia della «malapolitica» siciliana, marchiata da un sistema che presuppone un’insana convivenza tra partiti, istituzioni e mafia.

L’ex governatore della Sicilia finisce a Rebibbia alla fine di un «normalissimo» iter giudiziario che, nei tempi previsti e senza sbandamenti fra i vari gradi di giudizio, ha ritenuto convincente l’impianto accusatorio che imputava a Cuffaro il favoreggiamento aggravato dall’aver favorito Cosa nostra. Esistono pochi precedenti «netti» come questo che si è concluso ieri mattina con la sentenza di giudici talmente «terzi» da aver disatteso persino le richieste più miti del procuratore generale.

Ma questo vuol dire che Cuffaro è mafioso? Non spetta a noi dare risposte così impegnative, qui, semmai, deve bastare prendere atto di una sentenza costruita nella legalità, cioè nel pieno rispetto delle garanzie costituzionali e della dialettica processuale che, per una volta, non ha fatto leva prevalentemente sull’apporto dei collaboratori di giustizia. E la sentenza dice che l’ex Presidente della Regione Sicilia ha favorito la mafia anche rivelando particolari investigativi che potevano essere molto utili a qualche boss, oppure agevolando l’ascesa di politici graditi ad esponenti di Cosa nostra.

Cuffaro, dunque, ha assunto atteggiamenti più che discutibili ed ha interpretato il proprio ruolo istituzionale in modo inaccettabile e contrario alle regole ed alle leggi. Questo vuol dire che, insieme al populismo bonario che gli procurava il consenso di migliaia di clientes (i favori, i cannoli, i pellegrinaggi religiosi), coltivava un sistema di relazioni molto più pericoloso perché intimamente connesso con la mafia.

Sta proprio qui quella «specificità» siciliana che spesso sottrae alla «ordinaria malapolitica» le vicende isolane, politiche e non. Già, perché in Sicilia tutto viene deformato, amplificato reso «particolare e più grave» dalla presenza mafiosa. La «fisiologica corruzione amministrativa» che impera nel mondo in fondo allo Stivale diventa ancora più inaccettabile perché intinta nel sangue di centinaia di uomini e donne vittime del sistema mafioso. E comportamenti censurabili ma non gravissimi, in Sicilia assumono i connotati di un vero e proprio alto tradimento.

Per questo, forse, come ha detto qualcuno, fare politica in Sicilia è un grande azzardo. Per via del contesto: un sistema vecchio e collaudato, che negli anni ha concesso alla mafia lo status di protagonista, ma oggi deve fare i conti coi tempi che cambiano e con la saturazione di ogni capacità di sopportazione, provata da lutti e tragedie collettive. E l’azzardo, si sa, ha un costo: può finir bene o malissimo.

Quando a Cuffaro in primo grado fu tolta l’aggravante mafiosa, l’imputato quasi «festeggiò» per una condanna pesante (5 anni) che però lo sollevava dall’«azzardo malavitoso». Vero è che quei festeggiamenti aggravarono la sua posizione, dato che fu costretto alle dimissioni da una foto galeotta che lo ritraeva mentre distribuiva cannoli ai suoi supporters. Ma l’assenza dell’alone mafioso sulla propria testa, lo sollevava parecchio. Poi l’appello ripristinò l’aggravante del terribile art.7 e tornò lo spettro di una condanna che lo avrebbe rovinato politicamente e umanamente. Ci sarebbe, a dire il vero, un modo per sottrarre la politica all’abbraccio innaturale e sarebbe quello, a suo tempo, intrapreso dal Presidente Piersanti Mattarella, che preferì l’azzardo nobile pagandone le conseguenze col sacrificio della propria vita.

La fine toccata a Totò Cuffaro non sarà ricordata come una nobile uscita di scena. Eppure un merito bisogna riconoscerlo al «democristianissimo governatore»: quello di aver guardato, ad un certo punto, in faccia la realtà e di essere rimasto in piedi mentre gli crollava il mondo addosso. Da fervido credente qual è, si è aggrappato alla sua fede e alla famiglia, senza nascondersi tra le pretestuose lacrimazioni da vittima del complotto politico. Senza disconoscere la corretta dialettica istituzionale che delega alla magistratura il compito di applicare la legge. Ovviamente questa non è un’ammissione di colpevolezza, ma, appunto, una presa d’atto dell’ineluttabile conclusione della propria vicenda.

«Adesso - ha detto ai pochi amici vicini - affronterò la pena, com’è giusto che sia. E’ un insegnamento che lascio come esempio ai miei figli». E nel pieno rispetto della magistratura è andato a costituirsi, prestandosi - tuttavia - anche alle maligne interpretazioni di quanti vorrebbero vedere nel suo gesto l’assunzione di responsabilità di chi coscientemente ha giocato con l’alta tensione e oggi ne accetta le conseguenze. Ma aiuta di più credere a un Cuffaro che la coscienza non l’ha perduta.

1 commento:

LUIGI A. MORSELLO ha detto...

E' andato in galera uno che meritava ampiamente di andarci, uno che a un Costanzo show insultò Giovanni Falcone!
E non è finita qui, perché lo attende un'altra sgradevole sorpresa, altri 10 anni di carcere in altro procedimento per il quale ha chiesto il rito abbreviato. E' un uomo religioso? Allora: AMEN!