Il Cipe ha stanziato a novembre altri 500 milioni di euro per il tratto dell'Alta velocità che dovrebbe collegare Milano a Genova. Intanto restano bloccati i fondi per la ricostruzione de L'Aquila e delle scuole del Sud, che vantano un credito di 600 milioni di euro, denaro assegnato ma fermo da un anno
Meno di un dodicesimo, cinquecento milioni sulla spesa complessiva prevista di oltre 6 miliardi. È questa la proporzione del finanziamento che lo scorso 18 novembre il Comitato interministeriale per la programmazione economica (CIPE) ha accordato rispetto al totale necessario per realizzare il Valico dei Giovi, tratta della Tav Milano Genova. Mezzo miliardo di euro per un’opera che negli anni ’90 costava meno di un terzo e di cui si promette l’inaugurazione da quasi trent’anni. A cosa servirà questo primo stanziamento? A riaprire i cantieri, assumere personale, dare respiro alle promesse elettorali. Poi, se non si troveranno altri soldi, si ritornerà al 2007, quando le opere sono state chiuse perché i fondi erano esauriti.
Il quadro drammatico delle casse statali impone delle scelte. Per riaprire i cantieri del Valico dei Giovi, ad esempio, si rinuncia alle ultime assegnazioni per la ricostruzione degli edifici in Abruzzo e alla ristrutturazione delle scuole meridionali: a tutt’oggi, i fondi bloccati per completare questi due interventi ammontano a circa 600 milioni. In pratica, manca all’appello il 40% di ciò che è stato previsto dopo il terremoto abruzzese per la ricostruzione di edifici pubblici e privati e circa la metà di quanto promesso dal Cipe nel 2009 alle opere medio-piccole del Mezzogiorno. Quindi, perché secondo il Cipe l’antipasto della Tav Genova-Milano è prioritario rispetto ai terremotati abruzzesi e agli studenti meridionali? Se qualcuno lo chiede al segretario del Comitato, Gianfranco Miccichè, si sente rispondere che i soldi stanziati dall’ultimo governo vanno solo verso le opere del Nord e che «bloccheremo tutti i fondi se non arrivano i fondi anche per le opere nelle altre regioni». Invece, il sindaco de L’Aquila Massimo Cialente ha un’altra spiegazione: «In Italia si pensa prima a rifare il salotto buono e poi la cucina, cioè prima si pensa alla grande opera e poi a quelle essenziali per il territorio. Perché? L’infrastruttura nuova si annuncia, crea consenso elettorale, invece i soldi impiegati per le piccole opere non hanno visibilità. Ma prima di fare il Ponte sullo Stretto bisogna mettere in sicurezza il Paese. Ed è il governo in carica che decide quali siano le priorità».
«Il Governo farebbe bene a decidere quali infrastrutture sono prioritarie e a minor impatto ambientale, sociale ed economico», tuonava qualche tempo fa il Wwf. E il governo lo ha fatto: due su tre sono al Nord. Riprende Cialente: «Mi sono dimesso da vicecommissario alla ricostruzione per i ritardi nelle assegnazioni dei finanziamenti selezionati dal Fas: un miliardo di euro che non possiamo usare perché la governance che sovrintende i lavori, decisa dal governo, è inadeguata. A volte mi viene il sospetto che sia fatto tutto apposta per non farci usare i fondi. Ma noi come facciamo a non essere prioritari con 14mila persone che ancora non hanno ripreso possesso della propria casa?». Sarà anche perché scarseggiano gli sponsor per l’Abruzzo e per le opere di manutenzione al Sud. Mentre per il Valico dei Giovi non mancano: in primis, l’ex ministro Claudio Scajola e quindi il viceministro alle Infrastrutture Roberto Castelli. Scajola, in particolare, al Valico è legato per provenienza: ligure d’origine e dominus di molti progetti infrastrutturali in regione, l’ex ministro sa che
Infatti nel caso del Terzo Valico il problema non è la volontà, ma la disponibilità: l’opera è antieconomica. Pian piano l’hanno ammesso tutti:
A proposito del Valico, un anno fa il Wwf ha acceso il sospetto di cantieri rilanciati per soli fini elettorali: «Alcuni commi della finanziaria appena votata alla Camera rischiano di trasformare i primi cantieri delle Grandi Opere in colossali incompiute, cattedrali nel deserto». In effetti uno dei commi stabilisce che «il contraente generale o l’ affidatario dei lavori nulla abbia a pretendere nel caso dell’eventuale mancato o ritardato finanziamento dell’intera opera o di lotti successivi». E perfino l’Ance (Associazione nazionale dei costruttori edili) è d’accordo con gli ambientalisti: «I timori del Wwf sono condivisibili – spiega Stefano Delle Piane, vicepresidente nazionale di Ance – (…) È come se lo Stato dicesse: sappi che oggi i quattrini ci sono ma non potrai eccepire se in futuro non arriveranno. Diciamo che io, che lavoro con i miei soldi, un contratto del genere non lo firmerei».
Il Valico però si deve fare, costi quel che costi, anche se a spese del costruttore. Fin dal 1994 – quando l’opera valeva appena 1,5 miliardi di euro – la vicenda è stata ricca di previsioni definitive e smentite categoriche. Con alcuni esponenti politici in rilevanza. Uno di questi è il senatore Luigi Grillo, fedelissimo di Scajola, finito sotto l’occhio degli inquirenti nel 1999: alcune associazioni ambientaliste avevano denunciato i tempi e i costi dei lavori per il Valico che lievitavano in maniera irrazionale. Il 24 febbraio 1998 si decide il sequestro dei cantieri aperti nell’alessandrino, tra Franconalto e Voltaggio, e nel 1999, per decreto del ministro Ronchi, i cantieri sono chiusi. Intanto, a tal proposito,
Ma è Claudio Scajola il vero promoter del Valico durante i governi Berlusconi. Nel 2001, Lunardi inserisce il tratto tra le opere prioritarie del governo e
di Gianluca Schinaia – FpS Media
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