LAURA ANELLO
Così, lo portavo così. Era piccolo, bastava un braccio a tenerlo». Mette le braccia a forma di bambino, come se avesse nella mano destra la testa di suo figlio e nella sinistra le gambette. «Correvo all'impazzata, la polizia dietro a sparare, lui zitto zitto, silenzioso, non ha gridato, non ha detto: ho paura. A un tratto l'hanno colpito, ho continuato a correre, ma lui era morto». Parla in arabo, l'amico Mohammed traduce in francese, e le parole restano sospese in aria come quelle di un incubo.
Non ci sono lacrime, ma urla e occhi allucinati, ad accompagnare il racconto di Amir, 45 anni che sembrano sessanta, le rughe profonde sulla faccia scura, le mani tozze da operaio, una vita passata in un paese vicino Gerba. È arrivato a Lampedusa venerdì, in uno dei tanti barconi di disperati, e adesso è seduto a terra insieme a cinquanta irriducibili davanti alla sede dell'Area marina protetta dove è stato ospitato le prime notti. La struttura adesso è chiusa, gli immigrati sono stati trasferiti al Centro di accoglienza e sciamano in paese mescolandosi agli isolani, in mano il biglietto turno per lasciare l'isola che sventolano come un passaporto per la libertà. «Con questo posso andare anch'io in Italia», sorride sdentato Midhal, mentre si avvia verso il supermercato.
Ma questi no, da qui non si muovono. E ai carabinieri che arrivano tentando di convincerli dicono: «No, merci, dammi una sigaretta piuttosto». Ma Amir neanche fuma, neanche mangia. «Ho paura che se mi mettono al centro - dice - poi mi riportano a casa. In Tunisia io non ci posso tornare, anzi devo trovare il modo di fare venire qui anche i miei tre ragazzi grandi». Il racconto si fa confuso, Mohammed dice che il corpicino è caduto a terra, che è stato calpestato, che Amir l'ha raccolto per comporlo, per portarlo via. Sempre correndo tra la folla, con la polizia dietro a sparare. È difficile resistere agli schiaffi di dolore, alle tonnellate di disperazione che gravano sui barconi più del peso di uomini e donne, è difficile distinguere il vero dal falso dai racconti di un'umanità che si prepara in massa a chiedere asilo. Ma certo tutto ha visto in passato quest'isola, e anche quello che appariva assurdo è risultato vero, come le storie dei barconi respinti chissà dove o sepolti nel mare senza neanche il conforto della memoria, come la madre costretta ad assistere all' agonia di due figli di quattro e due anni assetati durante la traversata, a raccoglierne i rantoli senza poter dare loro una goccia d'acqua, a gettare in mare i loro corpi. E a perdere anche la bambina di dodici nelle manovre di avvicinamento della carretta.
«L'ho ascoltata io questa madre, insieme all'unica figlia sopravvissuta», racconta Enza Malatino, la psicoterapeuta che nei due anni bollenti di Lampedusa ha fatto gruppi di narrazione tra gli immigrati perché il loro dolore si sciogliesse nelle lacrime del racconto. «Un'esperienza talmente dura che a un certo punto non ce l'ho più fatta, ho dovuto smettere». Ma adesso è di nuovo qui, sul fronte, ad ammonire, a dire che anche lei, anche i suoi compagni di avventura, qualche volta sono stati Lazzaro, a volere vedere, toccare, prima di credere. «Un mediatore culturale è andato in Libia pochi mesi fa, voleva accertarsi di persona se quello che venivano a raccontarci qui era vero. E purtroppo sì, era vero». Amir urla, urla, come se stesse ancora manifestando contro Ben Alì, come se stesse correndo, in braccio il suo bambino insanguinato. Un grido infinito.
Poi si riscuote. «Non posso più vivere in Tunisia - dice - mia moglie sta molto male, ma i miei figli più grandi verranno pure loro in Italia. Cerco lavoro, e poi mi raggiungeranno anche loro». Intorno è un bivacco, il racconto di tre giorni all'addiaccio, sacchi di plastica per combattere l'umidità che entra nelle ossa, un gran fetore. Tornano i carabinieri, pazienti ma risoluti. Mohammed, 21 anni, cappellino e felpa, proclamato sul campo portavoce, ribadisce che no, da qui non se ne vanno. Lui, però, non esclude di tornare in patria: «Mi piacerebbe quest'estate, magari la situazione si è un po' calmata. Ma adesso non si può, è peggio della guerra. Eravamo partiti dal mio villaggio in trecento, ma non tutti sono arrivati in Italia, molti si sono arresi». E quella parola, arresi, è un altro punto interrogativo.
1 commento:
Chissà se Maroni, leggendo questo racconto straziante, sarà capace di immedesimarsi, immaginarsi di essere lui Alì col figlio in braccio ucciso dalla polizia, a correre come un dannato per salire sul barcone? Io dico di no, per il semplice motivo che è un leghista.
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