di Marco Travaglio
Un tempo era il Re Mida e trasformava in oro qualunque cosa toccasse. Poi divenne il Re Merda, ma menava gramo solo agli altri. Ora invece porta sfiga anche a se stesso.
È talmente disperato che chiede aiuto perfino a Bersani per un “piano bipartisan per la crescita” (soprattutto la sua), subito respinto al mittente. E viene scaricato financo da D’Alema. Il che è davvero tutto dire.
Il suo mortifero contagio miete vittime a ritmi ormai quotidiani.
Prendete Mubarak: regnava tranquillo sull’Egitto da trent’anni, poi lui l’ha evocato come zio di Ruby e l’ha stecchito sul colpo.
E
Bobo Maroni scrive letterine tremebonde al Pompiere della Sera, roba che nemmeno Bondi dei tempi d’oro, denunciando “l’antiberlusconismo manicheo, elitario e inconcludente” (tipo quello della Lega delle origini, quando B. era “il mafioso di Arcore”) e invocando “una tregua” con linguaggio doroteo.
Fa una certa tristezza ricordare che proprio 20 anni fa
Come diceva Longanesi, “in Italia le rivoluzioni cominciano in piazza e finiscono a tavola”. Figurarsi l’entusiasmo dei lumbard duri e puri nell’apprendere che l’altro giorno Flavio Tosi, il terribile sindaco di Verona con 85 denti, tutti canini, s’è ridotto a intitolare “con orgoglio e soddisfazione” un ponte sull’Adige a Mariano Rumor, elogiandolo come “grande statista veneto e italiano, che non solo fu una delle figure che segnarono politicamente il nostro Paese, ma che ancor oggi è per tutti noi un modello e un esempio di come è possibile fare politica in modo onesto, con grande impegno e dedizione a servizio della gente”.
Rumor, il “pio Mariano” fondatore dei dorotei, il premier dei governicchi balneari, il maestro del dolce far nulla e del tirare a campare, il triumviro del Pi-ru-bi (Piccoli-Rumor-Bisaglia), l’omino curiale, lattiginoso ed effeminato dalla manina flaccida e sudaticcia? Rumor nuovo “modello ed esempio” dei leghisti? Pare proprio di sì, a giudicare come si muove un altro ex celodurista come Calderoli, il coniglietto mannaro che ogni giorno smussa un pezzo di federalismo per farlo digerire a questo e quello. Col risultato che ormai – scrive Luca Ricolfi sulla Stampa – persino i federalisti più convinti “vedono con raccapriccio che quello che si sta consumando a Roma, fra infinite riunioni, tavoli tecnici, negoziati non è l’ultimo passaggio di un lungo cammino, ma una mesta, lenta e non detta agonia del federalismo”. E arrivano ad “augurarsi che tutto si blocchi, tali e tante sono le concessioni che gli artefici della riforma sono stati costretti a fare alla rivolta degli interessi costituiti e alla miopia del ceto politico locale”. Basti pensare che, dopo gli ultimi assalti dei comuni del Centro-Sud, si dà per scontato che il federalismo non ridurrà, ma aumenterà la pressione fiscale. Un affarone. Senza contare – ricorda Ricolfi – “l’obbrobrio anti-federalista per cui i comuni si finanzieranno con tasse pagate dai non residenti (imposta di soggiorno e Imu sulle seconde case), con tanti saluti al principio del controllo dei cittadini sui loro amministratori”. Infatti, fra l’aborto del federalismo e i racconti edificanti delle bunga-bunga girls,
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