di Marco Travaglio
Alla fine, depositato il polverone politico-mediatico del Truman Show, restano i fatti nudi e crudi, che il gip Cristina Di Censo descrive con una semplicità disarmante.
Una sera di maggio un cittadino telefona in Questura per far rilasciare una minorenne marocchina fermata per furto senza documenti né fissa dimora, spacciandola per la nipote del presidente egiziano Mubarak. Se fosse un passante, lo manderebbero a prendere per il trattamento sanitario obbligatorio. Trattandosi del presidente del Consiglio, trattengono le risa e obbediscono a lui anziché al pm minorile e affidano la ragazza a una procace consigliera regionale che si è precipitata sul posto in compagnia di una prostituta brasiliana, nelle cui mani poi la consigliera scarica la minorenne.
Le due immigrate vengono poi sorprese a rissare furiosamente e a rinfacciarsi la loro professione, la più antica del mondo.
Indagini, interrogatori e intercettazioni per scovare chi organizza il giro di squillo: saltano fuori i nomi della consigliera regionale, di un direttore di telegiornale e di un impresario di star dalla dubbia fama (lui, non le star).
L’utilizzatore finale invece è il presidente del Consiglio, che paga in soldi, favori, gioielli, appartamenti in comodato gratuito: ecco perché ha telefonato in Questura.
Dalle perquisizioni affiorano i soldi, elargiti un po’ dal premier un po’ dal suo ragioniere, che però non può essere perquisito perché abita in una succursale della Presidenza del Consiglio. Ci vuole il permesso della Camera. I giudici lo chiedono.
Vivo stupore in Egitto, dove nessuno è stato avvertito del fatto che il capo del governo italiano racconta in giro che Mubarak ha una nipote prostituta e che questa presta abitualmente servizio in casa sua (del capo del governo italiano). Anche perché, in tal caso, l’Italia rischierebbe non solo l’incidente diplomatico, ma un attacco missilistico.
Alla Procura di Milano bastano meno di tre mesi per tirare le somme: pagare una minorenne in cambio di sesso è reato (prostituzione minorile), indurre
Reato ordinario, tribunale ordinario. Tutto semplice, elementare, lapalissiano. Ci arriverebbe uno studente al primo giorno di Giurisprudenza. Non, dunque, legioni di politici e opinionisti servi.
Il 6 aprile, se vorrà, B. comparirà in tribunale. Se non vorrà, peggio per lui: lo processeranno lo stesso. Dopo vent’anni di urla, strepiti, leggi su misura, censure, epurazioni, ricorsi, ricusazioni e centinaia di milioni spesi in avvocati, giudici, testimoni e deputati per trasformare il Parlamento e il Paese intero in un gigantesco collegio di difesa, si ritroverà solo, impotente, nudo come un verme davanti all’incubo che lo insegue da sempre:
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