domenica 20 marzo 2011

La festa nella città dei ribelli Ma i raid non cancellano la paura


di BERNARDO VALLI

TOBRUK - Dicono gli shabab, i giovani combattenti, spesso imberbi, che da ieri sera la democrazia arriva dal cielo. Scende sulla Libia portata da "Rafale" e "Mirage", i quali volano non sempre visibili tra le nubi mediterranee, sparando per ora missili nei dintorni di Bengasi, minacciata dalle forze del male. Un primo messaggio dall'alto è arrivato poco prima del tramonto: un proiettile francese ha centrato un automezzo di Gheddafi che insidiava il capoluogo della Cirenaica. Il missile è stata una spada biblica del nostro millennio. Non solo gli shabab, ma tutti, a terra, insorti e testimoni, contano su quell'azione aerea appoggiata da occidentali e da arabi, per stanare infine il raìs, rinchiuso nel bunker di Tripoli.

Nell'86, quando gli shabab non erano ancora nati, gli americani tentarono invano di seppellirlo per sempre sotto le rovine provocate dai jet decollati dalle portaerei della VI flotta. Gheddafi riemerse, ringagliardito da quella punizione inflittagli dalla superpotenza. Penso proprio che in quell'occasione si convinse di essere risorto. La sua invulnerabilità viene adesso messa di nuovo alla prova. Gli europei, francesi in testa, ritentano l'operazione, con la benedizione dell'Onu, e con gli americani di retroguardia, riluttanti a impegnarsi direttamente, in prima fila. Dopo il disastro iracheno e con su le spalle il pesante fardello afgano, Barack Obama ci va cauto. Lui non è Bush junior. Non promuoverà un altro conflitto in terra. Non vuole correre questo rischio che potrebbe rivelarsi implicito, anche se per ora scartato. Questa volta il ruolo principale tocca agli europei: in particolare al francese Sarkozy e all'inglese Cameron.

La spedizione ha innegabili credenziali nobili, e dovrebbe restare soltanto aerea. Interviene nel corso di una guerra civile, capitolo della "primavera araba" cominciata a Tunisi e al Cairo, che vede a confronto il regime dispotico di Tripoli e gli insorti, avidi di libertà elementari, con Bengasi come roccaforte. Qui si vivono con trepidazione queste ore. La Libia liberata si sentiva abbandonata ed ecco che i paladini della democrazia, occidentali e arabi, volano nel cielo libico in suo soccorso. Sulle piazze gli shabab sparano per aria, con kalashnikov e mitragliatrici come fanno gli arabi quando vogliono festeggiare una vittoria, esprimere approvazione, o semplicemente per celebrare un matrimonio.

Anche qui, dove scrivo, arrivano il crepitii dei kalashnikov e delle mitragliatrici antiaeree. I ragazzi, trasformati più in miliziani che in soldati, scaricano così il loro entusiasmo, hanno l'impressione, sparando contro il cielo vuoto, di partecipare alla battaglia. Ma al tempo stesso si esercitano, perché la guerra è tutt'altro che finita. Nonostante l'entusiasmo, si pensa che la no- fly zone, decretata dall'Onu e approvata dalla Lega araba, dagli stessi "fratelli" musulmani di Gheddafi, non fermerà la repressione. Non ridurrà al silenzio il raìs. È formidabile ma non sarà sufficiente, dicono i capi dell'insurrezione.

Quando era annunciata, e si credeva fosse ormai in atto, la radio della Libia libera ha dato la falsa notizia all'una della notte di venerdì, le truppe di Gheddafi hanno sferrato un'offensiva in prossimità della periferia ovest di Bengasi. Se ne sono infischiati degli aerei francesi che si diceva fossero già in volo. Ero nella mia stanza, all'hotel Alnoran, a Bengasi, dove arrivavano i rumori attutiti di lontane esplosioni, quando un responsabile della sicurezza della città, visibilmente eccitato, ha bussato alla mia porta e mi ha suggerito di andarmene al più presto.

"Lei non ha il visto del governo di Tripoli, è un clandestino, può avere dei guai seri se arrivano quelli di Gheddafi". Non mi ha convinto, non ho pensato che il pericolo fosse tanto imminente. Era ben chiaro: l'eccitazione del responsabile della sicurezza era esagerata, ma dalla finestra ho visto le colonne di automobili che si dirigevano verso l'uscita orientale della città. La gente fuggiva convinta di avere alle spalle le truppe del raìs.

La scena era caotica. Clacson dispiegati. Vetture che si urtavano. Intere famiglie accatastate in automezzi di tutti i tipi, con i tetti carichi di bagagli. E gli shabab che cercavano di disciplinare il traffico. Distribuivano persino acqua, biscotti e tavolette di cioccolata. Sono stato trascinato dall'esodo, che si è diluito nel deserto, sul quale si era posata una nebbia tanto fitta e gelida da impedire il proseguimento del viaggio. La popolazione in fuga, ormai lontana dalla città, si è dispersa nelle fattorie accoglienti, dove i contadini distribuivano coperte e bevande calde. Vasti accampamenti si sono formati nel cuore della notte, fino all'alba, in pieno deserto.

Questa breve, occasionale esperienza mi ha dimostrato quanto sia profonda la paura che gli uomini di Gheddafi incutono a larga parte della popolazione. L'offensiva alla periferia di Bengasi si è poi rivelata modesta. Come accade spesso, la propaganda delle due parti l'aveva ingigantita. Al punto da far credere che la metropoli di Bengasi, con più di 800.000 persone, stesse per essere accerchiata. Ma in questa situazione nevrotica la forza delle truppe di Tripoli si moltiplica, e il terrore dei "mercenari neri" assoldati da Gheddafi diventa un'arma terribilmente efficace. Questo sta a dimostrare che malgrado gli interventi aerei, e sia pure nell'impossibilità di usare l'aviazione e le piccole unità blindate, il raìs potrebbe essere in grado di proseguire la sua azione. Adottando beninteso un'altra tattica. Le sue truppe sono più organizzate e meglio armate di quelle formate dagli shabab.

Nella notte tra venerdì e sabato, attraversando il deserto, in direzione di Tobruk, mi sono imbattuto in decine di miliziani anti-Gheddafi. Erano ragazzi educati e male armati. Pochi kalashnikov e molti bastoni. E una disciplina approssimativa, quindi un'inevitabile vulnerabilità. Gli shabab hanno bisogno di armi. Quelle fornite dal vicino Egitto non sembrano sufficienti. L'aviazione autorizzata dall'Onu segna una svolta nella guerra civile. Ma potrebbe non bastare e spingere a un impegno più esteso. A terra? Questo non è ancora nei piani.
L'intervento aereo, pur nei limiti stabiliti, è una grande prova di solidarietà: l'Europa, anche se non compatta, per una volta si è mossa e nella giusta direzione. Ma dicono gli shabab, che sparano con entusiasmo per aria, dovrebbe essere soltanto un primo passo.

(20 marzo 2011)

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