mercoledì 23 marzo 2011

SPARO SÌ ANZI NO: LA SINDROME DEL CAVALIER BALBETTA



La bega Tripoli e la “sparizione” del videocrate

di Luca Telese

Un vuoto che è un simbolo. Che strana impressione può fare sedia vuota, proprio al centro dei banchi del governo, nell’aula di Palazzo Madama. È una assenza, quella di Silvio Berlusconi, in Senato, che - come era prevedibile - suscita il dispetto e le critiche dell’opposizione, la censura della capogruppo del Pd Anna Finocchiaro: “È gravissimo - dice - che il presidente del Consiglio non venga nell’aula a parlare e ad assumersi la responsabilità del comportamento del governo sulla Libia”.

MA IN REALTÀ, quel banco vuoto, oggi, è molto più di un oggetto di contesa fra le parti, di un argomento polemico, di un cavillo nel galateo parlamentare. Quel vuoto è in realtà l’emblema di una piccola grande eclissi, l’epigrafe paradossale sul grande interventista costretto a sottrarsi e a centellinarsi. La testimonianza di un cortocircuito che squassa le fondamenta mediatiche del berlusconismo, le sue radici, appanna la leadership, certifica un malessere profondo, persino nella giornata in cui (almeno teoricamente) il governo italiano segna un punto, ottenendo dalla Francia il sospirato sì al comando dell’Onu per l’operazione militare in Libia.

E invece no. Quel banco vuoto è il segno di un disagio, di una difficoltà. Il premier che aveva sepolto il ricordo della traballante Unione con la forza e la vitale aggressività della sua leadership, perde colpi, lancia messaggi contraddittori, ha paura di rimanere invischiato. Non ci mette più la faccia. “Addolorato”, per Gheddafi, ma forse persino più dolorante per se stesso. È come se ogni volta che sfiora l’argomento rasentasse la gaffe: “Non lo chiamo perché non voglio disturbarlo”, diceva. E poi lo aveva bombardato. “I nostri aerei non hanno sparato e non spareranno” (il che fa sembrare ridicolo l’invio dei Tornado, a svolgere compiti di pattugliamento aereo). Che distanza da quei giorni di estate in cui il Berlusconi che si sentiva statista affermava drastico: “Chi critica l’alleanza con Gheddafi è prigioniero del passato!”. Che terribile paradosso rileggere i reperti dialettici ossidati dell’ottimismo berlusconiano: “Quando due popoli ritrovano l’amicizia, questo avviene a vantaggio di tutti” (come spiegarlo a Bossi che paventava l’arrivo di al Qaeda?). Ora cadono bombe, saltano accordi, gli alleati si mangiano frammenti di influenza politica, la maggioranza litiga.

Nel corso di una giornata convulsa i dispacci da tutti i fronti dicono che il premier arretra. Malgrado tutte le rassicurazioni (regolarmente smentite) offerte dai membri del governo e da Angelino Alfano (nelle ultime settimane si erano tutti affannati a negarne la possibilità) Berlusconi è costretto a infilare l’ennesima norma ad personam sulla prescrizione breve. Malgrado le spavalde dichiarazioni di un tempo sul nucleare (“È - sentenziò solennemente a Porta a Porta - l’energia più pulita e sicura che si conosca”) è costretto al brodino riscaldato della “pausa di riflessione”. E infine arriva il disastro sulla Libia, non solo politico, ma anche comunicativo. Che infausti - con il senno di poi - quei vaticinii strampalati sul futuro di Gheddafi: “Ho l’impressione che stia per cedere” (come no, quasi dimissionario). Insomma accade questo. Il presidente del Consiglio che aveva baciato la mano al dittatore libico, pronunciato un solenne discorso di amicizia, vantato il proprio legame con il Colonnello come uno dei capisaldi della propria diplomazia, adesso tentenna ed è incerto. L’uomo che ha consegnato alle telecamere ben due (rabbiose) videolettere sul Rubygate, ora fugge l’appuntamento con il paese, evita il confronto in Parlamento, tace sul nucleare e sulla campagna di Libia, si affida ai virgolettati lasciati trapelare nei retroscena, con la speranza di poter aggiustare tutto con le correzioni di rotta del giorno per giorno.

E COSÌ, inevitabilmente, mentre il conflitto fa crescere le suggestioni “neonapoleoniche” intorno alla figura solo pochi giorni fa appannata di Nicolas Sarkozy, la legge contrappasso disegna intorno alla sagoma appesantita del premier le stimmate dell’indecisionismo e del disagio. Non tiene la sua maggioranza, salta il rapporto con la Lega, deflagrano i rapporti con i ministri “della guerra” (Franco Frattini e Ignazio La Russa), che hanno occupato la scena, e lo hanno costretto a tirare il freno: “Sono andati troppo avanti!”. L’Italia è oggi il paese del paradosso e dell’indeterminazione tattica, del crepuscolo della leadership. Di sera Berlusconi torna precipitosamente a Palazzo Grazioli, vede Giulio Tremonti, deve affrontare anche la rogna della norma anti-scalate. Ma il nodo resta il pasticcio della Libia, la difficoltà di trovare una via di fuga. Domani Berlusconi dovrà parlarne a Bruxelles: dirà necessario il coinvolgimento di tutti gli organismi internazionali, della Lega Araba e l'Unione africana. Spiegherà che non si deve cacciare Gheddafi, ma puntare tutto sul cessate il fuoco. Sostituirà il calco di un andreottismo in tono minore, al sogno di leadership che si è usurato nella guerra di Libia alla velocità con cui scompaiono i sogni di grandeur. Il videocrate immaginifico è diventato un cavalier balbetta.

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