mercoledì 6 aprile 2011

Caro D’Alema, ricordati di te


di Roberta De Monticelli

Onorevole D’Alema, la prima volta che ho udito il suo nome fu nell’intervallo di una lezione di Nicola Badaloni, alla Normale di Pisa alcuni decenni fa. Io non ricordo più quale fosse l’argomento del corso. Ma l’argomento di quella lezione, lo ricordo. Era una pagina di Francesco De Sanctis che opponeva il pessimismo di Leopardi a quello di Schopenhauer. Sono andata a cercarla, credo che fosse questa:

“Non crede al progresso, e te lo fa desiderare; non crede alla libertà, e te la fa amare. Chiama illusioni l'amore, la gloria, la virtù, e te ne accende in petto un desiderio inesausto. E non puoi lasciarlo, che non ti senta migliore; e non puoi accostartegli, che non cerchi innanzi di raccoglierti e purificarti, perché non abbi ad arrossire al suo cospetto. È scettico, e ti fa credente; e mentre non crede possibile un avvenire men tristo per la patria comune, ti desta in seno un vivo amore per quella e t'infiamma a nobili fatti. ...E se vuoi con un solo esempio misurare l'abisso che divide queste due anime, pensa che per Schopenhauer tra lo schiavo e l'uomo libero corre una differenza piuttosto di nome che di fatto; perché... lo schiavo ha il vantaggio di dormire tranquillo e vivere senza pensiero, avendo il padrone che provvede a' suoi bisogni; la qual sentenza se avesse letta Leopardi, avrebbe arrossito di essere come Wille della stessa natura di Schopenhauer”.

Ecco: certo non la ricordavo così limpidamente, questa pagina, eppure – trovo solo oggi l’occasione per dirglielo – da allora questo ricordo di un fuoco morale e civile di marca leopardiana si associa nella mia mente al suo nome (incongruamente? O sapientemente? Non so). Perché quel giorno, davanti al caffè che si andava ritualmente a prendere al bar vicino alla Sapienza, sentii quel nostro comune professore parlare con orgoglio di questo Massimo D’Alema, che tardava, sì, a scrivere la sua tesi (e lui, il maestro, esibiva davanti a noi una severa riprovazione) – ma tardava per la più nobile delle cause, il sacro fuoco della passione per la giustizia, i diritti politici e soprattutto sociali che la nostra Costituzione riconosceva, perché fossero rimossi gli ostacoli che limitavano di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini... (quante volte avrò sentito ripetere quelle parole, nelle appassionate discussioni che allora non escludevano neppure noi matricole, mentre si camminava al seguito dei “filosofi”, su e giù per il Lungarno).

Massimo D’Alema e Fabio Mussi, quei due! Erano in ritardo, sì – ma non perché dragavano i Lungarni, come molti altri. Grandi cose avrebbero fatto, in politica. E un lampo di orgoglio nello sguardo sempre così mite del maestro smentiva di nuovo la severa riprovazione per la tesi che aspettava, e magari avrebbe aspettato ancora a lungo... Badaloni, anche se noi matricole non lo sapevamo, non era solo un intellettuale del PCI, e non era certamente solo stato (a lungo) sindaco di Livorno: stava costruendosi una fama più duratura come storico del pensiero italiano – autore di memorabili opere su Giordano Bruno, Tommaso Campanella, lo stesso Vico. E da storico, più che da filosofo, usava fare lezione. Ne ammiravamo l’erudizione immensa: attraversava le epoche e gli autori massimi e minimi, attraverso lunghi florilegi di citazioniche la sua voce tranquilla infilava lentamente, attraversando una barriera di tre strati di libri aperti in verticale come una cerchia di mura, duplicata da tre strati di lenti da vista, sforati dal suo sguardo così miope – e così penetrante.

Onorevole Massimo D’Alema, permettimi di darti del tu – avevi solo una manciata d’anni più di me, ma noi tutte matricole, senza ancora averti mai visto, già ti ammiravamo, perché quel dotto maestro era così orgoglioso del suo allievo perduto alla speculazione per la sua passione morale e civile. Chissà se è rimasta solo in una piega segreta della mia memoria, l’associazione del tuo nome alla leopardiana differenza fra l’uomo libero e lo schiavo. Chissà se rivivrà nella tua coscienza, la leopardiana distinzione fra il pessimismo e il cinismo. Prego il nostro vecchio maestro che non c’è più, e certo non peccava d’idealismo né di moralismo. Anzi mi associo a quella che è certamente la sua preghiera, di lui che non pregava santi ne iddii. Non negare l’autorizzazione all’arresto di Alberto Tedesco, non fare in modo che sia negata. Perché se no è davvero perduto tutto.

L’onore, la memoria, il senso della nostra studiosa giovinezza, la differenza morale fra un pessimista e un cinico, e la speranza che non ce l’abbiano insegnata invano, compagno D’Alema. Compagno di studi.

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