martedì 5 aprile 2011

E di Liberale rimase Poco


Che il nostro Paese, la cui crescita è da tanti anni così stentata, abbia bisogno di riforme liberali, è cosa in certa misura riconosciuta sia a sinistra sia a destra.

Chi non ricorda le «lenzuolate» di Bersani ai tempi del governo di centrosinistra? Non furono provvedimenti travolgenti, anzi furono misure modeste, che però andavano nella direzione giusta, e soprattutto muovevano dalla percezione della necessità improrogabile di incominciare a rimuovere le ben munite difese di zone protette, di corporazioni consolidate, che bloccavano la concorrenza.

E chi non ricorda le tante promesse del centrodestra, di realizzare una rivoluzione liberale in Italia? Promesse che suscitarono molte speranze, ma che sono rimaste, purtroppo, in larghissima misura solo promesse.
Il Paese sembra irrimediabilmente fermo, prigioniero di una maglia d'acciaio che ne paralizza i movimenti, l'innovazione, la sperimentazione, lo spirito d'intrapresa, la crescita. Eppure, nella storia della nostra Repubblica ci sono stati periodi di rigoglio ed espansione grandissimi. Il periodo che va dal 1949 al 1953 (corrispondente al «centrismo» degasperiano) fu certamente «il più costruttivo» (come lo definì Ugo La Malfa) della nostra storia repubblicana. Già Luigi Einaudi aveva dato un contributo fondamentale per togliere di mezzo le bardature autarchiche ereditate dal fascismo e per riattivare tutte le energie dell'economia di mercato.

Si proseguì in questa direzione con decisioni coraggiose e memorabili: come la liberalizzazione degli scambi, attuata nel 1951 (fermamente voluta da La Malfa, appoggiata dal presidente della Confindustria Angelo Costa contro settori economici protezionistici, e avversata aspramente dalle sinistre sindacali e politiche): ossia l'apertura delle frontiere italiane al libero commercio con l'abbassamento dei dazi. Tale liberalizzazione permise l'ammodernamento tecnologico dei nostri impianti industriali, e pose le premesse di quel «miracolo economico» che nella seconda metà degli anni Cinquanta e nei primi anni Sessanta trasformò radicalmente il nostro Paese.
A partire dalla metà degli anni Sessanta questo trend si interruppe, a causa delle suggestioni statalistiche che prevalsero col centrosinistra. Fu una sconfitta secca delle forze liberali. Una sconfitta che si spiegava sì con l'egemonia raggiunta dalla cultura marxista, ma anche con la debolezza della nostra cultura liberale. Per misurare questa debolezza basti pensare alle posizioni sostenute da Benedetto Croce, che pure è stato il più grande filosofo liberale italiano. Secondo Croce, gli assetti economici e sociali avevano scarsa o punta importanza per il trionfo dell'idea liberale, la quale poteva quindi manifestarsi nelle situazioni più diverse, anche «nell'economia a schiavi e a servi», «nella massima del lasciar fare e del lasciar passare, e nell'altra, dell'intervento statale». E ciò perché per il filosofo napoletano l'idea liberale ha «natura religiosa», e quindi non può avere nessuna connessione con gli ordinamenti sociali, con gli assetti della proprietà e del mercato. Ed è significativo anche che nella Storia del liberalismo europeo di Guido De Ruggiero (un libro, peraltro, bellissimo, e di fondamentale importanza) venisse considerato come un campione del liberalismo tedesco... Giorgio Guglielmo Federico Hegel, cioè il filosofo che aveva divinizzato lo Stato e aveva teorizzato una società corporativa, al riparo dalla concorrenza e dagli imprevisti del mercato.
Certo, contro queste debolezze della nostra cultura liberale è risuonata la forte voce di Luigi Einaudi, che non si stancava di avvertire: «Giova moltissimo che, di fronte all'andazzo di tutto chiedere allo Stato, di tutto sperare dall'azione collettiva, si erga fieramente il liberista ad accusare di poltronaggine l'interventista e di avidità il protezionista». Ma la cultura liberale è stata sempre minoritaria in Italia, mentre la mentalità assistenziale, statalistica, ha avuto sempre il sopravvento, fino a permeare il senso comune. È certamente anche per questo (oltre che, beninteso, per il carattere composito e sostanzialmente conservatore dei nostri schieramenti politici) che da noi è così difficile fare non dico «rivoluzioni liberali», ma financo alcune riforme liberali, di cui avremmo assolutamente bisogno.

Per esempio, una maggiore flessibilità del mercato del lavoro, che eviti l'assoluta precarietà dei giovani e l'assoluta inamovibilità degli anziani (su questo punto il senatore Pietro Ichino ha scritto cose molto sagge su questo giornale); una riduzione delle tasse, in primis alle aziende, attraverso il recupero dell'evasione fiscale e la riduzione di alcuni settori della spesa pubblica, a cominciare da quella, pletorica e vergognosa, della politica (un triste primato italiano); investire nella ricerca, che è la chiave di volta dell'innovazione tecnologica, e che è invece la Cenerentola del nostro sistema. Tutte cose ovvie in altri Paesi, ma che da noi equivalgono allo sbarco sulla Luna; mentre gli anni del «miracolo economico» sembrano risalire ormai alla preistoria.

Giuseppe Bedeschi
05 aprile 2011

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