sabato 2 aprile 2011

Napolitano: così non si va avanti


«Così non si può più andare avanti. Quello che sta accadendo da due giorni alla Camera è uno spettacolo intollerabile, che mette a rischio la credibilità delle istituzioni e sconcerta i cittadini. È il momento in cui ognuno, ogni forza politica, si deve assumere tutte le proprie responsabilità».

È questo, più o meno alla lettera, il cuore del richiamo che il presidente della Repubblica ha rivolto ai primi capigruppo dei partiti convocati d'urgenza ieri sera al Quirinale. Una ricognizione che si dovrebbe chiudere oggi (probabilmente con una nota nella quale il Colle, tra l'altro, renderà pubblici gli impegni raccolti) e che Giorgio Napolitano ha voluto per capire fino in fondo le ragioni di due giornate consecutive di rissa in Parlamento.

È più che preoccupato, il capo dello Stato: è irato fin quasi all'avvilimento e senza parole, davanti a ciò che si è visto a Montecitorio. Dove il livello dello scontro, già aspro da troppo tempo, è aumentato di molti gradi, come l'allarme nucleare in Giappone che di ora in ora tocca soglie sempre più impensabili. Insomma: il Vietnam parlamentare profetizzato da più parti nei mesi scorsi è puntualmente andato in scena. E lui ne sarebbe rimasto a tal punto colpito da minacciare di sciogliere le Camere. Questo è quanto rilanciavano certi boatos - della maggioranza come dell'opposizione - che si sono nevroticamente rincorsi fino a notte. Un azzardo assoluto e, anzi, un'invenzione, replicano dal Quirinale, ricordando che il metodo delle intimidazioni «non appartiene alla cultura politica di Napolitano e al suo stesso stile di uomo delle istituzioni».

Di fatto, si sa che non ci sarebbe bisogno di pronunciare alcun ultimatum, da parte sua. La paralisi delle assemblee legislative, infatti, o anche di una sola di esse, non rientra forse nelle ipotesi (ondeggianti nello spazio di confine tra Costituzione formale e Costituzione materiale) secondo le quali un capo dello Stato può congedare il Parlamento e chiudere in anticipo una legislatura? Ed è pensabile che leader politici, sapendo di decretare attraverso la propria ingovernabilità una sorta di autoscioglimento, non ne tengano conto? Evidentemente la situazione è sfuggita di mano a tutti, e alla maggioranza in particolare. Lo dimostra il modo con cui si è lasciato cadere nel nulla un allerta preciso che il presidente aveva espresso con parole dure ad Angelino Alfano, qualche settimana fa. Questo il suo ragionamento: avete annunciato in pompa magna una «epocale» riforma della giustizia e, al tempo stesso, altri provvedimenti sulla medesima materia. Ora, badate che c'è un rapporto delicato tra la legislazione costituzionale e la legislazione ordinaria: è forte il rischio che le tensioni che possono nascere su questo secondo fronte si riflettano sul primo, quindi dovreste imporvi di procedere con i piedi di piombo se davvero puntate a tentare un dialogo con le altre forze politiche. A quelle riflessioni, il ministro Guardasigilli aveva annuito e assicurato il proprio impegno. Che è però di colpo caduto quando il governo ha messo in cantiere in tutta fretta certi provvedimenti, fondamentali per Silvio Berlusconi, ma destinati a spezzare ogni chance di confronto positivo con le opposizioni (e con la magistratura) sulla riforma. Il provvedimento sulla responsabilità civile dei giudici e, soprattutto, il provvedimento per il processo breve, sul quale si è consumata l'ultima prova di forza alla Camera, le cui traumatiche immagini stanno già rimbalzando sui maggiori network internazionali.

Napolitano le ha viste ieri mattina, quelle immagini, appena rientrato dopo la missione negli Stati Uniti. E ha pensato che la «guerriglia quotidiana» da lui evocata durante un dibattito alla New York University come condizione cronica della nostra politica, ormai va oltre qualsiasi soglia accettabile. Con il pericolo che l'eccesso di partigianeria e faziosità isterica (il fenomeno della hyperpartisanship, come lo descrivono gli studiosi) che «divide i partiti e rende impossibile una normale dialettica», contagi pure la società civile. Un rischio materializzato anche dal presidio stabile di contestatori pronti a urlare slogan e a gettare monetine sui leader di passaggio in piazza Montecitorio. Ecco perché, dopo aver verificato l'ancor più volgare replay di ieri in Aula, il presidente della Repubblica ha deciso di comportarsi come l'arbitro che convoca i capitani di due squadre i cui giocatori hanno perso la ragione. La metafora sportiva non appassionerà più di tanto il presidente (che si è confessato algido sul calcio), ma è questo ciò che sta provando a fare da quando è al Quirinale. «Io penso che si potrebbe costruire, e che sarebbe tempo di cominciare a farlo, non la pace, ma almeno un clima più civile e costruttivo nei rapporti tra governo e opposizione. Però, come la tregua significa cessazione dei combattimenti da ambedue le parti, egualmente la costruzione della pace, o meglio, nel caso nostro, di un clima più pacato, richiede il contributo di tutte e due le parti. Richiede, perlomeno, più senso della misura...». Quando diceva queste cose chiedendo un disarmo bilanciato, erano i giorni del G8 dell'Aquila. Non è cambiato niente, da allora. Se non in peggio.

Marzio Breda
01 aprile 2011

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