E’ in quelle vie, e precisamente in Piazza Magione, che Paolo Borsellino e Giovanni Falcone iniziarono a frequentarsi da piccoli. Ed è qui, all’interno del consiglio della I Circoscrizione, che ad un consigliere, Antonio Nicolao, che riveste anche la carica di vicepresidente, viene un’idea: “perché non dedichiamo la nostra aula consiliare proprio ai due giudici che qui sono nati, cresciuti e hanno mosso i primi passi da giovani magistrati?”.
Sembra una di quelle cose dall’esito scontato, che addirittura possono apparire quasi “populiste” tanto appare ovvia la condivisione e la collegialità che si troveranno davanti.
La mozione, che prevedeva anche l’affissione di una targa (che sarebbe stata acquistata con una colletta tra i consiglieri), il 18 luglio, a cui sarebbero stati invitati i parenti dei due giudici e il procuratore Messineo, viene portata ieri in consiglio. Il risultato è inquietante: solo quattro “SI” e dieci astenuti. I quattro consiglieri che hanno votato a favore sono stati lo stesso Nicolao, in quota IDV, e Ottavio Zacco, Virga Francesco, Sorci Salvatore, tutti in quota Forza del Sud, la creatura di Gianfranco Miccichè. Gli astenuti, invece, sono stati:
Di Cristina Antonio (UDC), Randazzo Giuseppe (Gruppo Misto), Gentile Milena e Apprendi Giovanni (PD), Pensabene Giuseppe e Miceli Paola (Sinistra Ecologia e Libertà), Orefice Carlo, Gulizzi Antonio, Milano Giuseppe e Salamone Calogero (Forza del Sud). Il presidente, Massimo
La scusa dei “pilati” è quella che l’aula sarebbe già stata dedicata nel 2001 ad un vecchio consigliere di quartiere. Il problema è che non risulta da nessuna parte. Loro, anziché votare “NO” e sputtanarsi, si astengono. Uno di questi, proprio di Forza del Sud (prima di pubblicare il nome aspetto i verbali), avrebbe detto che “ci sono già troppe cose intitolate a Falcone e Borsellino, pure alberi. Tanto vale che la prossima sala la intitoliamo a Franco Franchi e Ciccio Ingrassia“.
Tutto questo a pochi giorni dal 19 luglio, quando la città verrà invasa dalle Agende Rosse di Salvatore Borsellino, fratello di Paolo. Questo lo prendiamo come un segnale, come il regalo che la circoscrizione storica di Palermo, della Palermo antica e romantica, fa alla memoria del giudice.
Sarebbe coerente e auspicato, da parte dei 10 pilati, che venisse apposta un’altra targa in aula, una cosa molto pacata e sobria: “Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, avete rotto”.
giovedì 30 giugno 2011
Falcone e Borsellino, avete rotto
Su Bankitalia non si può sbagliare
MARIO DEAGLIO
Nell’intricato panorama dell’economia italiana, stretta tra la prospettiva di una manovra lunga e severa - resa indispensabile dalle difficoltà europee e mondiali assai più che dalle difficoltà italiane - e quella di una crescita comunque stentata, si è aperto in questi giorni un nuovo problema: oltre a rappresentare un «successo d’immagine» per l’Italia a livello mondiale, cosa rara di questi tempi, la nomina di Mario Draghi alla guida della Banca Centrale Europea fa sorgere l’esigenza di pensare alla sua successione alla guida della Banca d’Italia.
E di pensarci in tempi rapidi perché, nonostante la schiarita rappresentata dal voto di ieri del Parlamento greco, le perturbazioni monetarie mondiali non sono certo finite e l’Italia avrebbe maggiori rischi di esserne coinvolta se l’incertezza sul nome del futuro Governatore dovesse durare troppo a lungo.
Dalla Banca d’Italia passa una parte non piccola dell’identità economica italiana.
E’ stato grazie alla Banca d’Italia di Mario Draghi che il sistema bancario italiano non si è dissolto dopo l’estate bollente del 2006, con la probabile acquisizione di alcuni dei principali istituti bancari italiani da parte di concorrenti stranieri. Quelle stesse banche sono state incoraggiate a fondersi, a raggiungere e mantenere un consistente livello di solidità patrimoniale; sono oggi annoverate tra le principali aggregazioni finanziarie europee e rappresentano una delle maggiori garanzie della tenuta italiana,
Il sistema di vigilanza della Banca d’Italia, uno dei più severi del mondo, ha poi contribuito a tenere le banche italiane lontane dalle avventure troppo frequenti in altri sistemi creditizi: basti pensare che in Gran Bretagna, patria dei moderni sistemi bancari, tre delle maggiori banche hanno dovuto essere nazionalizzate in situazioni di emergenza, naturalmente a spese dei contribuenti; il costo elevato di quelle nazionalizzazioni (che l’Italia ben difficilmente potrebbe permettersi) ora frena l’economia britannica. In Italia, quasi nessuna banca ha dovuto avvalersi del «paracadute» pubblico rappresentato dai cosiddetti «Tremonti bonds».
Di fronte a una crisi mondiale che fa ragionevolmente prevedere nuovi mesi di incertezza e di perturbazioni monetarie, la tenuta del sistema bancario appare essenziale alla tenuta dell’Italia. Essa sarà meglio garantita se verrà prescelto un candidato in grado di garantire la continuità della «cultura» della Banca d’Italia e della sua esperienza positiva degli ultimi anni.
Fatta salva l’indiscussa qualità professionale dei nomi dei possibili candidati, appare preferibile un’autonomia di fatto della Banca d’Italia dal ministero dell’Economia. Tra i due enti che, con competenze molto diverse, governano il sistema economico italiano la collaborazione - pur talvolta venata da qualche contrapposizione dialettica, tutto sommato salutare - è preferibile alla subordinazione della prima al secondo. Una Banca d’Italia sottomessa al Tesoro evocherebbe i tempi precedenti al «divorzio» del 1981 che pose le basi del rientro italiano dalla grande inflazione degli Anni Settanta. Fino ad allora
Con l’attuale ministro dell’Economia, il rischio di una Banca d’Italia «schiava» probabilmente non si corre, in quanto la gestione Tremonti è tutto fuorché finanza allegra, come gli italiani in questi giorni possono ben constatare. I ministri, però, passano e i governatori restano, non avendo bisogno di essere confermati a ogni cambio di maggioranza. Con i tempi che corrono, una scelta che si fermi all’interno di Via Nazionale appare certamente la più lungimirante.
Rifiuti, passa il decreto con il ‘no’ della Lega. Bossi: “I napoletani non imparano mai”
Il Consiglio dei ministri ha approvato il decreto sui rifiuti a Napoli. Ma
Il presidente del Consiglio, intanto, si mostrava ottimista sull’approvazione del piano e sostiene che il decreto sia il massimo sforzo possibile in questo momento. L’obiettivo illustrato da Berlusconi è un piano straordinario da presentare entro un mese con la realizzazione di impianti per lo smaltimento. Lo ha detto nel corso della riunione con gli Enti Locali a palazzo Chigi, a quanto raccontano alcuni presenti, per mettere un freno all’emergenza rifiuti in Campania. Il premier ha poi annunciato la volontà di seguire in prima persona la vicenda recandosi frequentemente nel capoluogo campano per seguire di persona i lavori.
Mentre il governo prende una decisione, la situazione è sempre più allarmante: ”Tra Napoli e provincia oltre 14mila tonnellate per strada. Nei comuni della provincia siamo di fronte ad un disastro da apocalisse. Tra poco bisognerà evacuare alcuni territori a causa dei roghi tossici”. Così, in una nota, il commissario regionale dei Verdi Francesco Emilio Borrelli ed il presidente provinciale Carlo Ceparano. “Nel capoluogo campano la situazione è migliorata con circa 1300 tonnellate da raccogliere ancora, in provincia siamo di fronte ad un disastro da dimensioni apocalittiche”.
“Senza il decreto sui rifiuti del Governo – concludono Borrelli e Ceparano – ed una legge regionale che elimini la provincializzazione della gestione dei rifiuti non usciremo mai dall’emergenza. I leghisti sono i primi responsabili di questo ultimo disastro poi ovviamente ci sono le responsabilità locali a partire dalla Regione che ad oggi non ha realizzato un solo sito di compostaggio. Noi riteniamo che a causa del caldo, del proliferare dei topi, dei moscerini, dei roghi tossici e del cattivo odore bisognerà se l’emergenza perdura evacuare alcune zone a rischio del territorio”.
“False le firme dei Pensionati per Cota”, Michele Giovine condannato a 2 anni e 8 mesi
ANDREA GIAMBARTOLOMEI
Roberto Cota trema ancora. Il consigliere regionale Michele Giovine, eletto nella lista “Pensionati per Cota”, è stato condannato a due anni e otto mesi nel caso delle firme false per l’accettazione delle candidature alle scorse elezioni in Piemonte.
I suoi voti hanno permesso al governatore leghista di superare la presidente uscente, Mercedes Bresso. Anche il padre del consigliere regionale, Carlo Giovine, è stato condannato a due anni e due mesi. Il giudice del Tribunale di Torino, Alessandro Santangelo, ha dichiarato false tutte le 17 firme disponendo l’interdizione dai pubblici uffici di Giovine senior per un anno e sei mesi e di Michele per due anni. Inoltre il consigliere regionale è stato anche privato dei diritti elettorali per cinque anni.
Contro di lui il pm Patrizia Caputo aveva richiesto una condanna a tre anni e 6 mesi, più l’interdizione dai pubblici uffici per cinque anni; una pena di due anni e 6 mesi era stata chiesta contro Giovine senior insieme all’interdizione dagli uffici pubblici e il divieto di candidatura per la durata della pena. “Me l’aspettavo, non c’è niente di nuovo sotto il sole. Non credo che ricorrerò”, ha detto Giovine all’uscita dall’aula andando contro l’opinione del suo difensore Cesare Zaccone, che ha annunciato già il ricorso.
Soddisfatta
Giovine avrebbe potuto convalidare la sua lista in maniera molto semplice, ma non l’ha fatto. Bastava rispettare una specifica legge regionale, emanata durante il governo Bresso su forte spinta degli “habitué” delle liste civetta, tra cui figura anche lui. La norma facilita il gioco ai consiglieri già in carica: non devono raccogliere le firme dei cittadini per presentare le proprie liste, ma solo autenticare quelle dei candidati davanti a un notaio o un pubblico ufficiale. E pubblici ufficiali i Giovine lo sono. Michele (in passato già coinvolto in un processo per firme false da cui si è salvato per la prescrizione del reato) è consigliere comunale a Gurro (Verbania), mentre il padre Carlo è consigliere comunale a Miasino (Novara). I due potevano autenticare le firme dei loro candidati nei rispettivi comuni. Niente di più semplice, eppure secondo gli inquirenti i Giovine non hanno fatto neanche il minimo: le firme poste sulle liste non sono quelle dei candidati (quasi tutti parenti e anziani conoscenti, spesso abitanti in altre regioni) davanti ai due “ufficiali” nei municipi di Gurro e Miasino il 25 febbraio 2010 perché quel giorno i Giovine non erano in quei comuni: dall’analisi delle utenze telefoniche risulta che Michele non era a Gurro, ma a Torino; il padre non era a Miasino, ma in giro per altre province del Piemonte; e non erano né a Gurro né a Miasino neanche i candidati, cinque dei quali hanno dichiarato al giudice Santangelo di non aver proprio posto la loro firma sui moduli elettorali. “Tutte queste falsità sono confluite in un’unica falsità che è la lista elettorale. Un fatto estremamente grave perché è lo sfregio più totale di ogni forma di legalità”, ha sostenuto il pm Caputo nella requisitoria del 25 maggio scorso. A questo comportamento, “si aggiunge un reiterato inquinamento probatorio mai visto prima”: molti testimoni sono stati contattati prima delle udienze e istruiti sulla versione da fornire.
Il 6 ottobre prossimo
Fuga dalla Rai, Annunziata se ne va “Le mie dimissioni sono definitive”
Il servizio pubblico continua a perdere pezzi. Saviano, Ventura, Santoro, Gabanelli, oggi la conduttrice di "In Mezz'Ora". Casu belli un'intervista al Messaggero in cui l'ex presidente lanciava accuse molto pesanti: "Anche nel rapporto tra sinistra e televisione ci sono cose che proprio non vanno. Le stesse che vengono rimproverate al centrodestra. Piccole mafie, rapporti non chiari, privilegi attribuiti non secondo il merito". Ruffini: "No comment, prendo atto"
”Il direttore Paolo Ruffini – spiega Lucia Annunziata – lunedì 27 ha comunicato in comitato editoriale aziendale di ritenere impossibile continuare a lavorare con me dopo la mia intervista al Messaggero e ha chiesto alla Rai la possibilità di trasferirmi su altre reti. Ho preso atto ed ho presentato le mie dimissioni al direttore generale”. Già nella serata di presentazione dei palinsesti c’era stato uno scontro tra Ruffini e Annunziata, per l’assenza del suo programma dalla cartellina dei palinsesti autunnali che però il direttore aveva giustificato come un errore di stampa.
Nell’intervista al quotidiano romano la conduttrice si lamentava per lo scarso rilievo dato dalla rete al suo programma, “una riserva indiana”. “Orari variabili, nessuna promozione – spiegava
Allora Ruffini aveva risposto definendo una ‘stupidata’ parlare di ‘piccole mafie’ a Raitre. “Lucia sa benissimo che il suo programma è in palinsesto, al suo programma voglio bene perché ha dato prestigio alla rete. Il termine mafie è proprio una stupidata”, aveva commentato intervenendo a ’24 mattino’. Oggi, il direttore di Raitre dice di non voler commentare le dimissioni della Annunziata perché “è un fatto che si commenta da solo”. ”La sua decisione di dimettersi dalla Rai è un atto unilaterale a seguito di una polemica unilaterale e di affermazioni offensive che non intendo commentare anche perché si commentano da sole – ha detto Ruffini – L’unica cosa che posso fare, e che ho fatto anche nell’ultima riunione del comitato editoriale del 27 giugno, è prenderne atto”. “In una lunga intervista (mai smentita) a il Messaggero del 22 giugno scorso – ricorda il direttore di Raitre -, Lucia Annunziata (che fino al giorno prima aveva concordato le innovazioni da apportare al suo programma, previsto in onda dall’11 settembre e presente nel filmato aziendale presentato agli investitori pubblicitari) ha pubblicamente affermato di non voler più lavorare per il terzo canale accusando la rete di ‘cose che proprio non vanno, piccole mafie, rapporti non chiari, privilegi attribuiti non secondo il merito’, e dichiarando di ‘non volere più avere a che fare’ con le persone che vi lavorano”.
La7 interrompe trattativa con Santoro “Prova di un colossale conflitto d’interesse”
”Siamo di fronte ad una nuova, eloquente e inoppugnabile prova dell’esistenza nel nostro Paese di un colossale conflitto di interesse”. Michele Santoro non ha dubbi sulle motivazioni che hanno spinto La7 a interrompere con lui le trattative. “Un accordo praticamente concluso – prosegue il giornalista -, annunciato dallo stesso telegiornale dell’editore coinvolto, apprezzato dal mercato con una crescita record del titolo, viene vanificato senza nessuna apprezzabile motivazione editoriale. Naturalmente non possiamo fornire le prove dell’esistenza di interventi esterni ma parla da solo l’interesse industriale che avrebbe avuto La7 ad ospitare un programma come il nostro nella sua offerta”.
”Improvvisamente – prosegue Santoro – ci sono stati posti gli stessi problemi legali che
“Ricordiamo a tutti – aggiunge il giornalista – che il dottor Stella, amministratore delegato di Ti media aveva pubblicamente dichiarato che non c’erano divergenze economiche e che La7 non aveva nessun problema a mettere in onda un programma come Annozero. Un programma che, tra infinite difficoltà e attacchi di ogni tipo, è sempre stato realizzato in completa autonomia. Perchè hanno cambiato idea? Chi ha interesse ad impedire che si formi nel nostro Paese un terzo polo televisivo che rompa la logica del duopolio?” “Per tornare a crescere – conclude Santoro – l’Italia deve liberarsi del conflitto di interesse e di tutti coloro che non hanno avuto il coraggio di opporgli le ragioni della libertà di opinione e della libertà di mercato. Sulla scia del successo di Tuttiinpiedi, con l’aiuto fondamentale del pubblico, dimostreremo presto che un Paese semilibero non ci basta. Tutto cambia”.
Santoro-La7, trattative interrotte E la Borsa punisce il titolo Timedia
Interrotte le trattative per il passaggio di Michele Santoro a La7. Lo comunica Telecom Italia Media parlando di "inconciliabili posizioni riguardo alla gestione operativa dei rapporti fra autore ed editore". Più o meno nello stesso momento, Lucia Annunziata annuncia "dimissioni definitive" in polemica con il direttore di RaiTre, Paolo Ruffini. Non ci sarà, dunque, una nuova edizione del programma della giornalista In mezz'ora.
Per Santoro a La7 sembrava fatta. Era il 23 giugno quando l'amministratore delegato di Telecom Italia Media, Giovanni Stella, presentando i palinsesti autunnali e annunciando l'arrivo sulla rete di Roberto Saviano e, in prospettiva, di Fabio Fazio, considerava prossima anche la chiusura dell'accordo con il conduttore di Annozero. Il definitivo salto di qualità per il canale tv trascinato verso l'alto nella corsa all'auditel dall'esponenziale crescita di audience del Tg di Enrico Mentana nella stagione televisiva appena conclusa.
L'approdo ideale per Santoro, La7, al termine di una stagione trionfale per Annozero su RaiDue in termini di pubblico e raccolta pubblicitaria, chiusa dall'anchorman lanciando in diretta, nell'ultima puntata, una provocazione al Cda Rai ("un euro a puntata e rifaccio Annozero") e un divorzio dall'azienda che, proprio perdendo un patrimonio come Santoro, aveva evidenziato quanto le pressioni della politica contino più dei conti e della qualità della tv di Stato. E quanto anche la cosiddetta "P4" e il "faccendiere" Bisignani si fossero adoperati per allontanare Santoro dalla Rai.
Il contratto per Santoro con La7 era "in via di definizione", mancava ancora un aspetto che, come spiegava Stella, non riguardava questioni di carattere economico. "Dal quel punto di vista non c'è nessun problema - aveva affermato l'ad di Telecom Italia Media - con Santoro è stato trovato un accordo di massima e spero che possa arrivare presto". Ma Stella aveva anche evidenziato le difficoltà della trattativa. Un contratto "non facile - aveva sottolineato - Santoro è un volto di pregio e giustamente vuole avere delle tutele".
Oggi, dunque, la rottura della trattativa per "inconciliabili posizioni riguardo alla gestione operativa dei rapporti fra autore ed editore". Notizia che ha avuto immediati riflessi negativi su Timedia in Borsa: un tonfo (-4,59%, a 0,2164 euro), che acuisce le difficoltà di un titolo che già prima dell'annuncio era in calo dell'1,15%. Dopo la notizia della rottura con Santoro, sono arrivati nuovi ordini di vendita.
Annunziata: "Ruffini, impossibile lavorare con me". "Il direttore Paolo Ruffini - spiega Lucia Annunziata - lunedì 27 ha comunicato in comitato editoriale-aziendale di ritenere impossibile continuare a lavorare con me dopo la mia intervista al Messaggero ed ha chiesto alla Rai la possibilità di trasferirmi su altre reti. Ho preso atto e ho presentato questa mattina le mie dimissioni al direttore generale Lorenza Lei. Il dg mi ha chiesto se poteva trovare altre strade. Ho detto no, le mie dimissioni sono definitive". Già nella serata di presentazione dei palinsesti c'era stato uno scontro tra Ruffini e Annunziata, per l'assenza del suo programma dalla cartellina dei palinsesti autunnali che però il direttore aveva giustificato come un errore di stampa. Ma la giornalista aveva lasciato la serata. Al momento, a quanto si apprende, l'addio alla Rai non prevederebbe un nuovo contratto con altra emittente.
Idv: "Colpo di coda del berlusconismo". "La notizia del mancato accordo tra Santoro e La7 è la conferma che il regime berlusconiano sta vivendo gli ultimi pericolosi colpi di coda. E' chiaro a tutti che l'editto bulgaro emanato dal presidente del Consiglio nei confronti di trasmissioni sgradite a Palazzo Chigi come Annozero non solo è ancora in vigore, ma ha ormai superato il duopolio Rai-Mediaset", commenta in una nota il portavoce dell'Italia dei Valori, Leoluca Orlando. "Questa decisione colpisce tutti i cittadini, che vengono privati di una voce libera come quella di Michele Santoro, e calpesta definitivamente l'articolo 21 della Costituzione - prosegue Orlando - Siamo in presenza di un vero e proprio vulnus della democrazia. A questo punto, il dg della Rai, Lorenza Lei, e i vertici dell'azienda pubblica non hanno più alibi: Michele Santoro e la sua redazione sono ancora disponibili a tornare in Rai. Gli oltre 8 milioni di telespettatori meritano rispetto e aspettano un segnale dalla dirigenza. Lorenza Lei dimostri che non ha nulla a che fare con la lobby piduista di Bisignani".
(30 giugno 2011)
Operazione Dia, indagato capo della Mobile e spunta anche Fabio Cannavaro
Maxi operazione Dia Napoli nei confronti dei presunti prestanome dei boss Lo Russo. In queste ore gli agenti al comando di Maurizio Vallone stanno eseguendo una serie sequestri di importanti locali della città di Napoli. In particolare sono stati messi i sigilli alla catena di ristorazione Regina Margherita. Negli atti dell'inchiesta due nomi eccellenti: quello del capo della squadra mobile di Napoli, Vittorio Pisani, indagato per favoreggiamento; e quello del calciatore Fabio Cannavaro, cui sono state sequestrate quote di una società che non risulta inquisito.
IL NOME DI CANNAVARO - Nell'ambito di questa operazione sono state sequestrate le quote societarie che appartengono all'ex campione del mondo Fabio Cannavaro, attualmente giocatore di una squadra in Qatar, ma già capitano della nazionale e colonna negli anni di Parma, Juve e Napoli.
PRESTANOME DI UN IMPRENDITORE - Cannavaro al momento non risulta indagato e secondo le indagini avrebbe fatto da prestanome all' imprenditore Marco Iorio, legato al gruppo di Mario Potenza dedito all' usura e legato a clan camorristici. Il blitz della Dia comprende pure sequestri in corso in altre parti d'Italia e precisamente nelle città di Genova, Bologna, Torino, Varese, Caserta.
IL CALCIATORE SPIEGA AI PM - Fabio Cannavaro, che al momento non è indagato, ha reso dichiarazioni al pm nell' ambito dell' inchiesta sul giro di usura e riciclaggio. "Ho conosciuto Marco Iorio sei o sette anni fa e dopo circa un paio di anni sono entrato in società con lui nel ristorante di Napoli 'Regina Margherita', acquistando il 10 per cento delle quote della società", ha detto il calciatore. "In società con Marco Iorio - ha precisato - ci sono entrato quale socio della C.M.A. che è la mia società - la cui denominazione riproduce le iniziali dei nomi dei miei tre figli e che un tempo era denominata 'Cannavaro Immobiliare'". Cannavaro ha detto di non conoscere gli altri soci della società di Marco Iorio "se non Martusciello (non meglio specificato, n.d.r.) che però mi pare sia subentrato successivamente". Il calciatore ha precisato di essersi proposto lui stesso a Iorio, dicendogli che era sua intenzione "diversificare gli investimenti".
DIVIETO DI DIMORA PER IL CAPO DELLA SQUADRA MOBILE - Sempre in questa indagine il capo della squadra mobile di Napoli, Vittorio Pisani, è indagato con l'accusa di favoreggiamento nei confronti dei titolari di un ristorante. Pisani è inoltre destinatario della misura di divieto di dimora a Napoli.
LE ACCUSE AL SUPER POLIZIOTTO - Secondo quanto emerso dalle indagini della Procura di Napoli, il capo della squadra mobile Vittorio Pisani avrebbe rivelato all'imprenditore Marco Iorio notizie riservate sull'inchiesta in corso, consentendogli così di sottrarre beni al sequestro e di depistare le indagini.
Titolare del fascicolo è il pm della Dda Sergio Amato, con il coordinamento del procuratore aggiunto Alessandro Pennasilico. Alle indagini hanno dato un contributo le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Salvatore Lo Russo, ex capoclan dell'omonima organizzazione criminale attiva nel quartiere Miano, che ha riferito, tra l'altro, degli stretti legami di amicizia tra lui e il capo della squadra mobile.
CITATA ANCHE UNA INTERVISTA - "Il dottor Vittorio Pisani, legato con solidi e comprovati rapporti di amicizia con Marco Iorio ed in rapporti con Salvatore Lo Russo, sui confidente, non ha esitato a rivelare a Iorio l'avvio dell' indagine da parte di questo ufficio, informandolo al contempo del contenuto di alcune annotazioni di servizio redatte dal suo stesso ufficio". Questo un brano centrale di un durissimo comunicato firmato dal procuratore di Napoli Giandomenico Lepore e dall' aggiunto Alessandro Pennasilico distribuito ai giornalisti nel corso della conferenza stampa alla Procura di Napoli sul sequestro di ristoranti e locali pubblici a Napoli nell' ambito di un' inchiesta su usura e riciclaggio del clan Lo Russo. "Ciò - prosegue il comunicato della Procura - inevitabilmente ha arrecato un serio pregiudizio alle indagini, specialmente sotto il profilo della compiuta individuazione ed acquisizione dei beni da sequestrare, essendosi sia Marco Iorio che Bruno Potenza, a sua volta informato da Iorio, immediatamente attivati per occultare i capitali,parte dei quali effettivamente già trasferiti all' estero, programmando in queste ultime settimane addirittura la vendita a prestanome delle stesse attività di ristorazione". "Ma si è anche accertato - prosegue il testo - che il dottor Vittorio Pisani era da anni a conoscenza del reimpiego dei capitali illeciti da parte di Marco Iorio e non solo non ha mai effettuato alcuna indagine, nè redatto alcuna comunicazione di notizie di reato, ma ha intrattenuto quotidiani rapporti amicali con questo ultimo, frequentando il ristorante "Regina Margherita". "Ma le indagini - prosegue il testo - hanno rivelato anche qualcosa di più grave, che attiene al comportamento tenuto proprio in relazione alle indagini in corso, da parte del dirigente della Mobile, il quale si è fortemente speso in difesa dell' amico Iorio, tenendo comportamenti decisamente contrari ai doveri connessi con l'alto ruolo ancora oggi rivestito. E mentre trasferiscono i soldi in Svizzera gli indagati cominciano anche a immaginare una strategia difensiva e - come rivelato dalle intercettazioni ambientali - si dovrebbe concretizzare nell' attribuzione delle quote occulte al nero accumulato negli anni per effetto di una mera evasione fiscale".
"Diventa allora inevitabile che appaia quasi come un' anticipazione delle linea difensiva degli indagati - conclude il comunicato dei vertici della Procura di Napoli - l'intervista che lo stesso Pisani rilascia alla fine del mese di marzo 2011 dal titolo 'I professionisti evadono il fisco e riciclano i soldi in bar e ristoranti. L' opinione manifestata dal dirigente della Mobile è infatti che nel riciclaggio sono coinvolti sopratutto i medici, gli avvocati, i notai, ed i commercialisti. Non una parola sulla camorra nè su altre e reali fonti illecite".
IL CAPO DEI PM: IL POLIZIOTTO RIVELO' UNA INDAGINE - Il capo della squadra mobile di Napoli Vittorio Pisani rivelò all' imprenditore Marco Iorio, referente per il riciclaggio del clan Lo Russo notizie sull' indagine in corso. Lo afferma il Procuratore di Napoli Giandomenico Lepore. Parla di una "vicenda dolorosa", il procuratore che in conferenza stampa, ha voluto ricordare l'importanza dell'attività di indagine svolta dalla Squadra mobile in questi anni, alla quale ha ribadito "stima e fiducia": "Tante deleghe alla Mobile sono in corso e tante ne daremo". "Mi dispiace, Vittorio Pisani era anche un amico, lo conosco dai tempi in cui stavo in Tribunale e alla Procura generale - ha sottolineato - è un personaggio noto e che si fa voler bene, ha arrestato latitanti del calibro di Iovine e Russo".
LEPORE: PISANI NON INDAGO' SU CAPITALI CLAN - Il capo della Mobile di Napoli Vittorio Pisani "non ha indagato per anni su capitali illeciti" prodotti dal riciclaggio e l' usura praticati dal clan Lo Russo. Lo affermano il procuratore di Napoli Giandomenico Lepore e l' aggiunto Alessandro Pennasilico in un comunicato congiunto.
PISANI, PARLA IL PENTITO LO RUSSO - "Ho rapporti con il dottor Pisani dalla seconda metà degli anni '90". Apre così il boss poi pentito Salvatore Lo Russo, fin dalle dichiarazioni spontanee del 12 ottobre 2010, il capitolo dei suoi rapporti con uno dei migliori investigatori che Napoli abbia avuto. Lo Russo racconta di essere stato chiamato dal boss Paolo Di Lauro, capo del clan da cui si stavano separando gli 'spagnoli' di Raffaele Amato e Cesare Pagano, per tentare di comporre "fare il possibile per porre fine alla guerra". "Di tale circostanza io informai il dottor Pisani - dice Lo Russo - in quanto questi era impegnato nella cattura di Paolo Di Lauro. In quell'occasione in cui ci siamo visti al ristorante, il dottor Pisani mi diede il suo recapito telefonico, dicendomi che potevo rivolgermi a lui se avessi avuto bisogno di qualcosa...trovai strana la circostanza e quella sera stessa lo chiamai da una cabina telefonica. Fui così che ci incontrammo e lui disse che era sua intenzione catturare latitanti dell'Alleanza di Secondigliano".
MANGANELLI: FIDUCIA IN MAGISTRATI E IN PISANI - "Confermo stima e fiducia nel dottor Vittorio Pisani, che destinerò ad altro incarico per corrispondere alle determinazioni dell'autorità giudiziaria, nella quale ripongo altrettanta fiducia ed i cui provvedimenti, io personalmente e l'Istituzione che rappresento, rispettiamo incondizionatamente". Lo dice il capo della Polizia Antonio Manganelli, raggiunto telefonicamente dall'Ansa negli Stati Uniti dove si trova in questi giorni, in relazione all'indagine di Napoli in cui è indagato il capo della Mobile. "In questo momento - ha proseguito Manganelli - desidero mandare un abbraccio affettuoso alle donne e agli uomini della Squadra Mobile di Napoli che, a prezzo di enormi sacrifici personali e delle loro famiglie e pur in presenza di risorse umane e strutturali non sempre adeguate alle necessità, hanno ottenuto negli ultimi anni, proprio sotto la guida del dottor Pisani, risultati straordinari". Dunque agli agenti, conclude il capo della Polizia "dico di continuare ad essere la magnifica squadra, solida e coesa, capace di fronteggiare con coraggio e determinazione l'inondazione criminale, non solo camorrista, che affligge quel territorio ed alla quale troppo spesso da più parti si risponde solo con la convegnistica e con vane analisi sociologiche. A loro dico di vivere a testa alta questi momenti di comprensibile amarezza, continuando a fare il proprio dovere al fianco della magistratura e in stretta sinergia con le altre forze di polizia nell'interesse della comunità napoletana e dell'intero Paese".
IL CAPO DELLA MOBILE A ROMA, MORELLI NUOVA GUIDA - Intanto la responsabilità della squadra mobile di Napoli è stata affidata temporaneamente al vicecapo, Pietro Morelli. Lo ha detto all' Ansa il questore Luigi Merolla. "Per noi è come se Vittorio Pisani fosse in ferie - ha aggiunto il questore - in attesa della nomina del nuovo capo la guida passa a Morelli". Vittorio Pisani sarà trasferito a Roma, ha anticipato Merolla.
I VERBALI: TI FACCIO SALTARE TUTTI I DENTI - Tornando al capitolo-Cannavaro, Marco Iorio, l'imprenditore ritenuto dagli investigatori amico e socio in affari del calciatore è accusato di essere a capo di un'associazione per delinquere finalizzata al riciclaggio, al trasferimento fraudolento di valori, alle false comunicazioni sociali e alla corruzione di pubblici ufficiali. Avrebbe impiegato nelle sue attività denaro del boss del quartiere Santa Lucia Mario Potenza e dei suoi figli, nonchè due milioni di euro versati dall' ex capoclan Salvatore Lo Russo, oggi collaboratore di giustizia. I soldi, secondo gli investigatori, provenivano soprattutto dall'usura. Nel decreto di sequestro, emesso dal gip Maria Vittoria Foschini, sono contenute anche alcune intercettazioni telefoniche che provano l' attività usuraria dei Potenza. Parlando con un imprenditore che non riusciva a saldare un debito, Salvatore Potenza lo minacciava così: "Ti devo levare tutti i denti da bocca... Allora, io non voglio sentire niente. Digli a quel bastardo di tuo figlio che, dove lo vedo lo vedo, lo mando all'ospedale. Dove vedo a tuo figlio, lo devo fare a pezzi".
SOSPETTI SU BANCHE - Verifiche in 81 banche, di cui una sospettata di aver effettuato una serie di operazioni (almeno una decina) per ripulire il denaro.
PRESI TRE COMMERCIALISTI - Arrestati tre commercialisti. Uno particolarmente noto in città. L'inchiesta fa parte dell'operazione Megaride che ha portato nei mesi scorsi all'arresto di un ex contrabbandiere e usuraio che teneva milioni di euro (almeno 7) in contanti nelle pareti della sua casa di Santa Lucia.
TUTTI I NOMI DEI LOCALI: 17 SEQUESTRATI - I locali sequestrati dalla Dia nell'ambito dell'inchiesta su un'attività di riciclaggio ed usura collegata al clan Lo Russo sono 17, tutti molto noti e frequentati. Tra essi figurano il bar "Ballantine" e i ristoranti-pizzeria "Regina Margherita" in via Partenope e "I re di Napoli", la paninoteca "Dog Out" in piazza Municipio; il ristorante "Villa delle Ninfe" a Pozzuoli. "Tutti - scrive il gip - sono nella titolarità di società le cui quote sono a loro volta intestate a prestanome, e cioè a soggetti estranei ai gruppi familiari Iorio e Potenza, ma di fatto a loro legati da rapporto di dipendenza e subordinazione. Nella realtà - come dimostrato dalle intercettazioni - il potere decisionale rimane sempre saldo nelle mani degli imprenditori indagati. Spesso questi soggetti - aggiunge il gip - formalmente investiti della titolarità delle quote, hanno anche mansioni di dipendenti all' interno delle aziende, a volte anche in posizione sovraordinata rispetto al resto del personale".
LE ACCUSE - Le ipotesi di reato sulle quali in generaIe ruota l'inchiesta vanno dall'associazione per delinquere all'usura, dal riciclaggio all'evasione fiscale.
30 giugno 2011
mercoledì 29 giugno 2011
“Un referendum per abbattere il Porcellum” Società civile e Web lanciano raccolta firme
Secondo Enrico De Mita, professore emerito di Giurisprudenza presso l'Università Cattolica di Milano, "di fronte all'inerzia del Parlamento non c'è niente di meglio che l'abrogazione popolare di una legge elettorale sconcia". Il 30 giugno il Comitato referendario inizia l'iter per arrivare alla consultazione popolare. Su Internet le iniziative di Valigia blu e Libertà e giustizia
“Esiste nel nostro ordinamento una legge elettorale maggioritaria talmente sconcia che è stata battezzata ‘porcellum’” e che “è l’esempio classico di una vicenda irrazionale che sollecita un referendum abrogativo”. A proporre un’altra consultazione dopo il successo dei quesiti su acqua, nucleare e legittimo impedimento non è un comitato referendario, ma Enrico De Mita, professore emerito di Giurisprudenza presso l’Università Cattolica di Milano, che ieri ha lanciato l’appello dalla prima pagina del Sole 24 Ore. Un parere autorevole che si unisce alle voci che in Rete e nella società civile chiedono l’abrogazione della legge elettorale.
L’iniziativa principale è “Io Firmo. Riprendiamoci il voto” promossa dall’ex senatore Ds Stefano Passigli del Comitato per il Referendum sulla legge elettorale che evidenzia i quattro principali difetti del Porcellum: le liste bloccate, il premio di maggioranza, le deroghe alla soglia di sbarramento e l’obbligo di indicazione del candidato premier. L’obiettivo sono 500mila firme e sul sito è possibile leggere i tre quesiti. Nei prossimi giorni sarà poi disponibile online la lista dei punti dove verranno raccolte le firme, mentre gli organizzatori stanno procedendo all’invio dei moduli negli 8.094 comuni d’Italia. “Il 30 giugno è la data ufficiale di inizio ed entro il 30 settembre dovremo depositare le firme presso
Ma c’è dell’altro. Infatti qualche settimana fa Valigia blu e Libertà e giustizia hanno lanciato il sito www.ridatecilanostrademocrazia.it, l’appello permanente per cambiare la legge elettorale che su Facebook ha già raggiunto i 30mila fan. I promotori hanno inviato un messaggio anche a Giorgio Napolitano e, nel caso in cui entro le prossime politiche si torni a votare con questa legge, hanno pensato alla certificazione “No Porcellum” da riconoscere ai partiti che si impegneranno a fare le primarie e selezionare i candidati rispettando la volontà degli elettori. L’obiettivo è dire basta alle liste bloccate: “Ridateci la sovranità che ci appartiene – scrivono sul web – perché vogliamo riprenderci il diritto di scegliere chi ci rappresenta in Parlamento”, si legge nelle pagine del sito.
La reazione dal basso prosegue anche su altre pagine Facebook, dove gli utenti insistono sul ritorno delle preferenze e si organizzano a livello locale per i tavoli di raccolta firme. Ma secondo Giovanni Sartori, membro del Comitato, il vero scandalo del Porcellum risiede nel premio di maggioranza perché “falsifica i risultati elettorali attribuendo i seggi a una minoranza”. Invece, per il politologo, “possiamo discutere sulle liste bloccate, ma quando c’erano le preferenze pochi italiani sceglievano i candidati e a sud in molti casi si trattava di voti di scambio”.
I cittadini, come per i quesiti di due settimane fa, hanno preso in mano la situazione e condividono informazioni sulla necessità di una nuova legge. Consapevoli dei propri diritti e senza più fiducia nella classe politica, vogliono esprimersi e decidere in prima linea. Enrico De Mita sul Sole osserva che “nell’inerzia del Parlamento non c’è niente di meglio che l’abrogazione popolare, facendo risolvere il problema dai cittadini. Quanto meno si apre nel Paese una discussione chiara”. Un’affermazione indirettamente confermata anche dall’autore della legge Roberto Calderoli che qualche giorno fa ha rimesso la responsabilità della legge nelle mani dell’intera classe politica: “Vengo accusato di avere fatto la madre di tutti i mali, il Porcellum – ha detto – ma credo che sotto sotto non ci sia segretario di partito che non fosse contento per le liste bloccate”. La ragione dell’urgenza risiede nella realizzazione della democrazia, dove i cittadini hanno il diritto di scegliere da chi essere rappresentati, diversamente da quanto accade oggi. Prosegue De Mita: “E’ meglio un referendum che una situazione come quella attuale, dove i diritti dei cittadini non sono tutelati nella scelta delle persone, dove si assiste a passaggi indecorosi da uno schieramento all’altro”.
Scola a Milano compensa l’elezione di Pisapia
Don Paolo Farinella
Habemus Scolam. Come volevasi dimostrare. Il cardinale Martini, malato, è andato a Roma a perorare Milano e il cardinale Tettamanzi è andato a supplicare il papa perché non interrompesse una linea pastorale che da Montini a Colombo, da Martini a Tettamanzi ha mantenuto di fatto la rotta sull’indicazione del Concilio Ecumenico Vaticano II, facendo di Milano in un certo senso il “contraltare” della Curia Romana, il segno, seppur debole, di una ecclesiologia plurale. Eppure il papa scegli l’antico, e guarda al passato.
Amico personale del papa, garante delle idee di Joseph Ratinger, ipergarante di Comunione e Liberazione che ora ingrassa anche all’ombra della “Madunnina”, l’ex patriarca Angelo Scolaprende possesso della Chiesa che fu di Ambrogio con grande cipiglio e anche un pizzico di vendetta. Quando era in seminario a Milano fu mandato via per le sue impurità nei confronti di Cl e ora ritorna a consacrare Cl come “modello di ecclesialità” rampante che sguazza bene anche nel malaffare attraverso
Il papa non ha tenuto conto delle consultazioni, degli appelli dei credenti milanesi e non, dell’identikit che gruppi ecclesiali hanno prospettato, ma ha scelto motu proprio non secondo gli interessi della Chiesa milanese e universale, ma secondo gli esclusivi interessi suoi personali e dei gruppi che egli protegge. E’ indubbio che l’elezione di Scola a Milano è un regno di transizione, quanto basta per rompere la “tradizione ambrosiana” aperta al futuro. Il passaggio infatti di Scola da patriarca ad arcivescovo (il cardinalato è a sé anche perché resta una carnevalata), formalmente è una retrocessione perché per il protocollo il patriarca di Venezia è titolo onorifico che precede il cardinale e l’arcivescovo.
Se addirittura c’è una retrocessione protocollare, significa che la posta è alta e gli interessi sono cogenti: Scola deve garantire la rottura, anzi la discontinuità tra i suoi predecessori e il suo successore. Milano deve rientrare nell’orbita della Curia Romana e non deve permettersi di assumere posizioni differenziate nei confronti della società civile (non credenti, divorziati, matrimonio, politica e politica governativa) e tutto deve essere riportato all’obbedienza “pronta e cieca” di memoria fascista.
Scola vuol dire: sguardo, cuore, reni, fegato e frattaglie rivolte a Trento, anzi più indietro, verso il tempo avanti Cristo, quando si stava sicuri anche dei sospiri perché chi dissentiva veniva fatto fuori, come poi imparò bene la chiesa medievale. La nomina di Scola è una lettura del pontificato ratzingheriano sul quale ormai è morta non solo la speranza, ma anche l’ipotesi di speranza. Un papato chiuso in se stesso, diffidente di se stesso, un papato che ha come segretario di Stato un Bertone qualunque (perché un qualunquista come Bertone è difficile trovarlo anche con la lanterna di Diogene) non può che volere uno Scola a Milano.
L’elezione di Scola a Milano è anche un controbilanciamento all’elezione “laicista” di Pisapia a palazzo Marino, eletto da buona parte di cattolici. Ora le distanze torneranno di sicurezza, di sorveglianza, e tutto quello che varerà la giunta in materia di diritti civili ecc. sarà spiato, soppesato, contraddetto, distanziato.
Che pena vedere le foto di Scola che brilla nei suoi polsini dorati, nel suo orologio d’oro, nella sua croce d’oro, nella sua gualdrappa rosso porpora, nel suo cappello a tre punte, rigorosamente rosso. Mi chiedo se uno vestito così poteva entrare nel cenacolo o se non stava meglio alla corte di Nabucodonosor tra i satrapi e gli eunuchi di corte. Ora è l’ora della Chiesa intesa come popolo di Dio: o rialza la coscienza e la schiena, magari piegando le ginocchia, o si sotterra e perde il diritto di lamento perché il “mugugno” solo a Genova è gratis.
E’ il tempo dei laici che non possono più lasciarsi trattare da chierichetti cresciuti e rincitrulliti. Ora è il tempo delle sorprese. Le sorprese del popolo di Dio che può essere capace di convertire i vescovi come i poveri fecero con monsignor Oscar Romero, con monsignor Hélder Cámara e tanti altri. Entri Scola ed esca il popolo di Dio.
Caro Pancho, prenditela con Di Pietro
Il presidente Sel risponde alla lettera aperta del senatore Idv Pancho Pardi pubblicata domenica sul Fatto
di Nichi Vendola
Caro Pancho,
la tua lettera al Fatto di qualche giorno fa mi offre l’occasione per ribadire quello che sostengo da molto tempo e che, anche quando ero l’unico a porre questa questione, ha costituito il punto di riferimento della mia iniziativa. Devo dirti che trovo un po’ curioso il fatto che tu rivolga a me la tua preoccupazione sulla natura del centrosinistra che verrà mostrando una qualche incertezza sul mio pensiero su questo punto. Ho sempre ripetuto che per battere Berlusconi e la sua destra sia necessario porsi il problema di battere il berlusconismo, di mettere in crisi l’egemonia culturale su cui ha costruito il suo consenso.
Perché questo obiettivo possa essere conseguito, sono convinto che sia necessario lavorare fin da ora (anzi da ieri) a una proposta di governo il cui segno sia esplicitamente alternativo a quello che ha dominato questi lunghi anni di buio e che oggi mostra i primi segni di cedimento. Si tratta di costruire una proposta che non si limiti a dire no alla precarietà, ma che dica anche come facciamo a combatterla, magari cominciando dall’abolizione della legge 30 e dalla ridefinizione di un patto con un’intera generazione oggi condannata a un eterno presente privo di qualsiasi prospettiva di futuro. Si tratta di fare della difesa e della valorizzazione dei beni comuni il punto di riferimento di questa prospettiva e di scegliere in modo deciso la strada delle energie alternative come strumento di difesa dell’ambiente e di sviluppo del territorio. Si tratta di rimettere al centro la democrazia nelle Istituzioni come nel mondo del lavoro. Insomma, si tratta di sottrarre la nostra discussione a quell’insopportabile dimensione nella quale la rappresentazione di sé prende il posto del confronto sul merito delle questioni.
Nello stesso modo ho proposto e propongo che oggi e non chissà quando si decida insieme di celebrare, attraverso le primarie, un percorso aperto e partecipato con cui scegliere non solo la leadership, ma anche il profilo politico e culturale della nostra proposta.
Ovunque lo si è fatto (salvo Napoli dove comunque il profilo che più chiaramente ha proposto una svolta, quello di Luigi De Magistris, ha ottenuto uno straordinario risultato) abbiamo ottenuto vittorie importanti, in qualche caso addirittura straordinarie.
Con i Pisapia e gli Zedda, non hanno vinto i “candidati alla Vendola” (per citare il segretario del tuo partito), ma una idea della politica e della costruzione concreta dell’alternativa. È in queste vittorie e nello straordinario risultato dei referendum (di chi li ha con coraggio promossi, di chi li ha sostenuti, di chi vi ha lavorato con passione e determinazione come l’esperienza dei comitati ci insegna) che dobbiamo cercare la strada.
Come dovresti sapere, non ho mai condiviso l’impostazione che una parte del Pd ripropone ritualmente sul tema delle alleanze. Considero del tutto sbagliata l’idea che l’ingegneria delle alleanze, un po’ più al centro, un po’ più moderati, possa condurci alla vittoria. Anzi sono convinto che l’idea che ha accompagnato gli anni del bipolarismo italiano fatta di neocentrismo e di attenzione a tutto tranne che al merito delle questioni abbia avuto un ruolo per nulla secondario nella lunga serie di sconfitte che abbiamo alle spalle. Non l’ho condivisa anche quando nella mia regione, alla vigilia delle ultime elezioni, il tema dell’allargamento al centro come condizione necessaria e preventiva era posta non solo dal Pd, ma anche dal tuo partito. Allora come oggi ho sempre risposto che nessuna coalizione alternativa può nascere dai veti, agiti o subiti che siano.
Per questo, anche oggi, penso che dobbiamo fare tutti un passo avanti. Anche quando su di me si concentrano polemiche che francamente trovo un po’ fumose. Anche quando il segretario del tuo partito dichiara che vanno bene le primarie, ma senza candidati alla Vendola... che significa?
Io davvero non l’ho capito. Tuttavia, la priorità non è questa e quindi continuerò a lavorare perché il centrosinistra che verrà sia capace di proporre al Paese una prospettiva utile per uscire dalla crisi in cui versa. Un abbraccio.
Nichi Vendola, Presidente di Sinistra Ecologia Libertà
Il ministro spacca in due “Repubblica”
Su Libero il direttore Maurizio Belpietro sostiene che Giulio Tremonti si è montato la testa, che gioca già a fare il premier, ma che ha un problema: “Il suo piano ha un difetto: si chiama Repubblica”. Nel senso che il ministro conta sull’appoggio del quotidiano di Carlo De Benedetti per realizzare le sue ambizioni egemoniche. Ma il sostegno di Repubblica non ha mai portato bene ai beneficiari, da Enrico Berlinguer a Ciriaco De Mita a Walter Veltroni.
Per il momento, comunque, il ragionamento di Belpietro va ribaltato: Tremonti è un problema per Repubblica, un grosso problema a giudicare dalla scelta del fondatore Eugenio Scalfari di rompere la consuetudine dell’editoriale domenicale per intervenire a metà settimana.
Con la forza polemica dell’indignazione per quello che ha letto sul giornale che ha fondato e diretto per 20 anni. Il titolo è innocuo, “Non va bene un proconsole per Bankitalia”, lo svolgimento molto meno. Perché il bersaglio della polemica non è Tremonti, che vuole imporre come governatore della Banca d’Italia il suo fidato collaboratore Vittorio Grilli, ma il numero due del giornale, il vicedirettore di Repubblica Massimo Giannini.
Scrive Scalfari: “Due giorni fa sul nostro giornale abbiamo pubblicato alcune ‘indiscrezioni’ la cui paternità era facile intuire, che contenevano l’elenco delle ragioni in favore della candidatura di Grilli”.
Il Fondatore allude alla doppia paginata domenicale firmata da Giannini in cui si presentava come una notizia quello che allo stato delle cose è il desiderio del ministro del Tesoro: “Bankitalia, per il dopo-Draghi accordo Tremonti-Berlusconi, il governo gioca la carta Grilli”. Giannini, che capisce di economia, conosce il concetto di self fulfilling prophecy, le profezie che si auto-avverano. Le impronte digitali tremontiane erano evidenti sulla paginata, a cominciare dalla lunghezza (Tremonti ha un approccio quantitativo ai giornali) e da “retroscena” come la pistola fumante indicata da Giannini: Tremonti che si rivolge a Grilli e gli chiede “Allora, governatore, sei contento?”.
Scalfari legge e – evidentemente – non gradisce, viste le perplessità generali sull’opportunità di mettere uno strettissimo collaboratore dell’esecutivo alla testa dell’unico organismo indipendente che in Italia si permette di criticare con autorevolezza il governo. Quando poi vede il sondaggio del lunedì, sempre su Repubblica, che indica Tremonti come l’uomo politico più popolare (54,5 per cento) deve aver deciso che la deriva tremontiana di Repubblica, secondo la logica che il nemico del mio nemico è mio amico, stava diventando eccessiva.
Ed ecco quindi l’editoriale di ieri dove si smonta, pezzo per pezzo, la paginata di Giannini, neppure citato se non come un generico “qualcuno” che non ha ben capito come stanno le cose. Grilli è una degnissima persona, scrive il Fondatore, ma “il ministro dell’Economia di strutture serventi ne ha già una quantità, dalla Cassa depositi e prestiti alla costituenda Banca del Sud, al fondo per finanziare banche e imprese ‘strategiche’, alla Consob”.
Per questo la nomina di Grilli – uno scenario che per Giannini sembra scontato e in fondo auspicabile – secondo Scalfari “configurerebbe una sorta di proconsolato del tutto inadatto a una democrazia liberale che richiede molteplicità di soggetti dotati di sufficiente autonomia nei rispettivi terreni di competenza”.
Si immagina la sofferenza di Giannini durante la lettura del giornale di ieri, il fastidio nel vedere che Scalfari contesta non solo l’interpretazione ma anche la natura dei fatti raccontati nell’articolo di domenica (con Napolitano Berlusconi e Tremonti non avrebbero mai parlato di Bankitalia, cosa sostenuta con forza da Giannini, dentro il governo non c’è alcun accordo, la legge non è affatto ambigua sulle competenze e i poteri di nomina ).
Trovarsi contestato sul proprio giornale non deve essere stato gradevole per Giannini, soprattutto se la polemica arriva da uno come Scalfari.
Lo spettacolo del Fondatore che rettifica il vicedirettore non deve aver giovato ai rapporti con Giulio Tremonti che negli ultimi mesi è sempre più celebrato dal quotidiano di Largo Fochetti. Tanto che una decina di giorni fa una sua relazione di routine all’assemblea di Confartigianato veniva elevata dal solito Giannini al rango di “un’altra discesa in campo. Non populista, né ideologica”. Titolo degno di migliori occasioni: “Il manifesto di Giulio”.
Come finirà il duello? L’ultima parola potrebbe averla il direttore di Repubblica Ezio Mauro, che ancora non si è pronunciato sulla successione a Mario Draghi. Starà con Giannini che vuole Grilli o con Scalfari che tifa Fabrizio Saccomanni? Magari, per opportunità diplomatica, darà il suo endorsement a Lorenzo Bini Smaghi visto che, almeno in questo caso, tertium datur.
Ste. Fel.
Bankitalia, per il dopo-Draghi accordo Tremonti-Berlusconi
MASSIMO GIANNINI
MARIO DRAGHI incoronato dall'Europa presidente della sua Banca centrale è un grande successo italiano. Ma non si fa neanche in tempo a brindare. La partita per la sua successione in Banca d'Italia è già entrata nel vivo. Lontano dalle luci della ribalta di Bruxelles, all'ombra dei palazzi romani, le diplomazie sono al lavoro da giorni. Ma la novità di queste ore è che il ministro dell'Economia Giulio Tremonti, a quanto pare d'accordo con il presidente del Consiglio, ha già preso la sua decisione: l'erede di Draghi a Palazzo Koch sarà Vittorio Grilli, direttore generale del Tesoro.
Per quello che valgono gli aneddoti, tra i delegati italiani in missione al vertice dei capi di Stato e di governo dell'altroieri ne circola uno che vale la pena di raccontare. Durante il volo di ritorno da Bruxelles Berlusconi si sarebbe rivolto a Grilli, scherzando: "Allora, governatore, sei contento?". Un indizio non fa una prova. Ma a Via XX Settembre pare non abbiano più dubbi. La decisione sarebbe già stata presa. E la settimana prossima dovrebbe essere formalizzata dal Consiglio dei ministri, già convocato per giovedì.
Tutto fatto, quindi? Non è così semplice. Il governo, infatti, deve ancora affrontare due scogli, tutt'altro che irrilevanti. Il Consiglio superiore della stessa Banca d'Italia. E poi, soprattutto, il presidente della Repubblica Napolitano. Dunque, la partita non si può ancora considerare del tutto chiusa. Non solo nella forma ma anche nella sostanza. Nel governo prevale un avviso contrario. Si accredita l'idea che i giochi siano ormai fatti. Anche se il Cavaliere, proprio a Bruxelles, ha rilanciato l'ipotesi di una terna di nomi. Oltre al candidato esterno Grilli e a quello interno Fabrizio Saccomanni, attuale direttore generale della Banca, il premier ha reinserito nella rosa persino Lorenzo Bini Smaghi, dopo aver ottenuto a fatica le sue dimissioni dal board della Bce.
Ma questa, stando alle voci, sarebbe solo una mossa di facciata. Dietro le quinte, Berlusconi e Tremonti, divisi sulla manovra economica e sulla riforma fiscale, avrebbero trovato invece un accordo blindato su Grilli, cioè sulla soluzione "esterna" a Via Nazionale. Una soluzione che sarebbe stata condivisa anche dalla Lega di Bossi. I motivi che avrebbero spinto il premier e il ministro a chiudere sull'attuale direttore generale del Tesoro riguardano il prestigio e l'anagrafe. Come Tremonti ha spiegato al Cavaliere, Grilli gode di una fama internazionale riconosciuta: è un membro della trojka europea, gestisce in prima persona i dossier che riguardano il disastro del debito della Grecia, è conosciuto e apprezzato da tutti, da Juncker alla Merkel.
Non solo. Grilli ha dalla sua l'età. Come il ministro ha spiegato al premier, tutti i governatori delle banche centrali dei paesi del G8 sono giovanissimi, e provengono dall'esterno. Il tedesco ha 41 anni e prima era sherpa della Cancelleria, l'olandese ne ha 44 e proviene dal Tesoro, il canadese ne ha 44 ed era direttore generale del ministero, l'inglese Marvin King ne aveva 50 quando è diventato cancelliere dello Scacchiere e proveniva dalla London School of economics, l'americano della Fed Ben Bernanke ne aveva 45 e veniva da Princeton. Insomma, l'età come sinonimo di esperienza e la carriera interna come sinonimo di competenza, secondo il governo, sarebbero ormai dei "non-criteri".
Per questo sarebbero caduti le ultime remore su Grilli. E per questo, tra Palazzo Chigi e Via XX Settembre, sarebbe stata esclusa la scelta "interna", cioè la candidatura di Saccomanni, attuale numero due di Bankitalia, gradito al governatore uscente Draghi e all'intera tecnostruttura di Palazzo Koch. Tremonti e Berlusconi sanno bene che Via Nazionale preferirebbe conservare la sua autonomia, che ha reso
La procedura, riformata con la legge 262 del dicembre 2005, prevede al comma 8 dell'articolo 19 che "la nomina del governatore è disposta con decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del presidente del Consiglio dei ministri, previa deliberazione del Consiglio dei ministri, sentito il parere del Consiglio superiore della Banca d'Italia...". Dunque, la nomina è un "atto complesso". Il governo e il Tesoro, previa una serie di esegesi giuridiche, sono convinti che il "dominus" della scelta sia il potere esecutivo, e che il parere del Consiglio superiore della Banca sia non solo consultivo e non vincolante, ma non debba riguardare i nomi dei candidati. Secondo questa interpretazione, quindi, martedì prossimo l'organismo interno di Via Nazionale dovrebbe esprimere un parere generale, e riferirsi solo ai criteri generali e ai requisiti personali del futuro governatore. Al contrario di quello che avveniva prima della riforma del 2005, quando invece la decisione sul nome spettava proprio al Consiglio superiore. E il Consiglio dei ministri di giovedì dovrebbe recepire il parere generico della Banca, formalizzando poi la proposta del governo con un solo nome (e non una rosa) da sottoporre al capo dello Stato.
In realtà la nuova legge, sul punto, è ambigua. E in ogni caso il il decreto di nomina è di competenza assoluta del presidente della Repubblica, che lo firma su proposta del premier. Dunque Giorgio Napolitano ha voce in capitolo. E allo stato attuale, al Quirinale non è arrivata da parte del governo alcuna indicazione sul successore dei Draghi. Il Capo dello Stato ha affrontato due volte il tema con Berlusconi. L'ultima volta giovedì scorso, dopo il voto sulla verifica di maggioranza. Il colloquio si è incentrato sul rispetto della procedura, e sull'idea che il governo possa lavorare intorno a una rosa di nomi. Da allora, al Colle, non sono arrivate notizie ulteriori. Ancora ieri mattina, durante un colloquio telefonico tra il presidente e il sottosegretario di Palazzo Chigi Gianni Letta, il dossier Bankitalia non è stato affrontato.
Questo non pregiudica la possibilità che il premier possa informare il presidente nelle prossime ore sulla scelta del governo. Ma quello che è certo è che Napolitano non accetta forzature, né vuole essere messo di fronte al fatto compiuto. Esige il rigoroso rispetto della procedura, e intanto aspetta. E si aspetta anche che Berlusconi, prima di decidere, faccia un altro giro d'orizzonte insieme a Draghi. La "continuità", per un organo di garanzia come
Berlusconi e Tremonti potrebbero dunque trovarsi di fronte un doppio scoglio. Palazzo Koch e il Quirinale. Berlusconi e Tremonti sono convinti di farcela comunque. Sia perché sentono di avere dalla loro parte la legge, sia perché sono convinti che Napolitano non porrà un veto su Grilli. Ha un curriculum indiscutibile, un pedigree inattaccabile. Cosa gli si può opporre? L'unica vera obiezione è politica: lo vuole a tutti i costi Tremonti, convinto che
Ma forse il problema, nella partita sulla Banca d'Italia, sta proprio in questa lettura della storia repubblicana.
m.gianninirepubblica.it
(26 giugno 2011)